Il migliore della settimana: Nada Roberti, 70 anni
QUANDO I MIEI FIGLI ERANO PICCOLI
sentivo dire spesso, dai miei genitori, zii, amici: «I figli diventati grandi, se ne vanno». Loro lo dicevano con un sospiro e malinconie negli occhi. E io mi chiedevo cosa ci fosse di tanto terribile che da grandi i figli lasciassero la casa a noi, i genitori. D’altronde avevamo fatto lo stesso anche noi.
I miei figli sono poi diventati grandi e sono andati via da casa. Tutti a diciannove anni. Perché tante università noi nel Sud non le abbiamo, perché avevano voglia di essere indipendenti e di sperimentare la vita. Ma pure di essere indipendenti e di riappropriarci della nostra vita, noi. Certo non è stato facile.
IO SONO RESTATA
in una casa grande con tante camere da letto chiuse, una tavola che da sempre troppo corta era diventata improvvisamente troppo lunga, una giornata stranamente fatta di tempo mio, ordine e silenzio e solitudini che avevo agognato ma che a conti fatti mi facevano sentire disorientata. Loro sono passati in case piccolissime dove non potevano tenere quasi niente di tutto quello a cui erano abituati, hanno imparato a cucinare o in alternativa a saltare i pasti, a non avere le calze pulite e indossare camicie stropicciate, a ripopolare in modo nuovo e incerto i loro monolocali, le loro ore, i loro affetti. Loro hanno sperimentato che il disordine, il chiasso, la provvisorietà non sono sempre un bene. Hanno imparato a cavarsela. Ed anche io. Ma non era questo lasciare andare via i figli. Ora lo so. Cerco il bandolo dell’intricato groviglio di pensieri in cui mi rigiro dopo l’ultima scelta comunicatami da uno di loro. Non è la prima grande scelta di vita dei miei figli con cui ho a che fare e peraltro non mi giunge inaspettata, avendola io già seguita nel suo lento evolversi. Ma l’enunciazione ha qualcosa di solenne, di compiuto.
È VERO HO VISSUTO IL ‘68
,ho letto Marcuse e don Milani, ho ascoltato i Beatles e Guccini, mi sono battuta per i diritti delle donne e di tutti, ho insegnato a figli e alunni il pensiero critico, ho negato l’ipocrisia, il perbenismo, gli apparenti valori. Ho inneggiato al coraggio delle proprie scelte.
Eppure in fondo, lo confesso, ai miei ragazzi auguravo una vita tranquillamente borghese, al riparo da grandi rischi.
Ripenso a quei vecchi d’allora che mi dicevano: «I figli se ne vanno». E non è il giorno in cui li accompagniamo alla stazione che li lasciamo andare via. Ora lo so. Li lasciamo andare via quando lasciamo che sia la loro visione di felicità e non la nostra a renderli felici. A renderci entrambi felici.