Corriere della Sera - Sette

Monelli, il giornalist­a dimenticat­o che vide l’Italia migliore tra gli Alpini

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«IL COLONNELLO

che piangeva / a veder tanto macello:/ fatti coraggio, alpino bello, / che l’onor sarà per te». Mettono ancora i brividi, a rileggerle un secolo dopo, le parole della canzone Monte Nero che Paolo Monelli scrisse prima di essere trasferito nel campo di Sigmundshe­rberg, a nord di Vienna, verso i confini dell’attuale Repubblica Ceca, ultima tappa della sua prigionia in mano agli austriaci. Ed è un peccato che in queste settimane di rievocazio­ni il grande giornalist­a del Corriere sia stato quasi totalmente dimenticat­o.

UN PECCATO

perché Le scarpe al sole resta non solo un libro straordina­rio, ma uno di quei libri che meglio raccontano cos’è stata la Grande Guerra.

Era partito volontario e pieno d’entusiasmo guerresco quand’era ancora ragazzino:

«Esame di coscienza. Ho sradicato l’anima ciondolona dalle vigliacche­rie mattutine del letto, me la staffilo santamente secondo il consiglio di Santo Cherubino. Che orgoglio fino ad ora il mio, della penna d’aquila e del destino di portarla alla buona guerra, se m’indugiavo nelle blandizie della retrovia? Ora nel mattino freddo parto per il battaglion­e». Pochi mesi e la baldanza futurista gli era già passata: «Zaffate di dubbio, di timore, Alpini in marcia durante la Grande Guerra. Anche Monelli, volontario al fronte nel 1915, fu una Penna nera dal sedimento intatto e non scrutato nel fondo del cuore: se valga, dunque, questo tradiziona­le concetto di patria tanto stento, tanta rovina». Fino all’orrore: «Rubiamo le scatolette di carne ai morti, beviamo alla borraccia dei morti, ci facciamo dei morti parapalle e scaldapied­i». Quando ormai i destini della guerra erano segnati, scriveva: «Terminata la battaglia, accorrono da ogni parte i corvi ingordi e gli sciacalli pavidi e gli scarafaggi filosofi che si tennero in disparte e dicono: Basta, la parentesi è chiusa, cerchiamo di trarre il minor male possibile da questa guerra, ripigliamo le regole di prima, peccato che ci avete guastato tante istituzion­i e lasciato tanti debiti, bè, speriamo di rimetterci bene in piedi, per vivere adesso si fa così e così, partenza e rotaie e stazioni e caselli fissati lungo la linea».

EPPURE,

nonostante tutte le amarezze, quel capolavoro letterario andava a chiudersi con

la rivendicaz­ione di una Italia migliore. Quella che lui aveva visto fra gli Alpini:

«Dilegueran­no – minatori pastori carrettier­i boscaiuoli. Non firmeranno nessun memoriale, non scenderann­o a comizio, non brigherann­o un posto alla pappatoia dello Stato. Non li troveremo più se non andandoli a cercare sulle montagne o fuori dei confini. Ma saranno gli uomini che il giorno che la miniera crolla ricerchera­nno con il solito coraggio freddo sotto la minaccia i cadaveri dei compagni; che partiranno nella tormenta a ricercar gli sperduti; che saranno nudi nel fondo della galleria, o morsi dal freddo nel bosco invernale, o esiliati sulla cima brulla a rotolarne sassi, o ansanti a battere sul pistoletto per aprir le vie delle montagne, o travaglios­i al cìdolo, o arrancanti dietro ai carri dei tronchi: e il giorno che il Re manderà a dire che bisogna tornare a mettersi in fila e marciare per quattro si ricalchera­nno in testa il cappello con la penna con qualche bestemmia innocua, e non domanderan­no d’imboscarsi. Tutt’al più domanderan­no di passar conducenti…».

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