Caselli: «Le mie follie in nome del Toro»
IL PADRE DI GIAN CARLO CASELLI
di lavoro faceva l’autista. Al servizio di un padroncino dei primi 900 che lo voleva a disposizione 24 ore su 24. L’auto quindi, nella sua infanzia, è stata una presenza nemica. Diventato giudice, nella sua esistenza blindata, prima nei mirini del terrorismo poi della mafia, le macchine hanno avuto un ruolo altrettanto fondamentale, ma ben diverso, anche se sempre ingombrante. «Vivere sotto scorta ti salva la vita, ma te la cambia». Palermo, dove ha vissuto negli Anni 90, l’ha vista solo dietro ai finestrini. A velocità sempre elevate, spesso con la sirena come colonna sonora. I suoi figli, da piccoli, non volevano mai salire su quel tipo di auto. «Poi, col tempo, i ragazzi della scorta sono diventati dei veri amici di famiglia e i miei figli ubbidivano più a loro che a me».
A distanza di tanti anni, parlando di auto, uno irreprensibile come lui racconta anche un’infrazione alle regole, «ormai spero caduta in prescrizione».
Anno 1976: già nel mirino del terrorismo, viveva da due anni sotto una scorta ferrea che non ammetteva deroghe. Ma quell’anno successe un fatto che fa fare follie anche a giudici in prima linea: la squadra del cuore vince lo scudetto. La sua è il Torino, ed erano quasi 20 anni che aspettava quel giorno. Lui e i figli, sfegatati granata quanto il padre, salirono sulla loro Fiat 500 e si immersero nel fiume in piena con le bandiere che sventolavano dal tettuccio apribile. Per la verità c’è stata anche un’altra impresa in cui Caselli ha mollato tutto inseguendo il pallone con un’auto. Lancia Delta per la precisione, lui sempre alla guida: da Torino a Innsbruck. Era il 18 marzo 1987. Tutto in una sera, per vedere un quarto di finale di Coppa Uefa contro l’Fc Tirol. Perso 2 a 1, per la cronaca. Vita da giudice in prima linea, anche quella granata.