Corriere della Sera - Sette

I nuovi chef di Raidue hanno capito: la cattiveria è datata

- GLACIALI

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la prima puntata di Il ristorante degli chef, nuovo talent show di cucina della Rai (Raidue), e più mi rendevo conto di due cose: mi piaceva, ma a Maurizio Crozza non sarebbe piaciuto. Perché Crozza ha regalato al pubblico un’imitazione esilarante, quella di Joe Bastianich in “Bastardche­f”. Ma

sarebbe complicato per chiunque, uomo o donna, al di là della bravura, fare un’imitazione divertente di Philippe Léveillé, Andrea Berton e Isabella Potì, i tre chef-giudici de Il ristorante degli chef.

Perché nessuno dei tre si presta alla riduzione a macchietta necessaria per la riuscita di una imitazione che funziona: Berton, serio, altissimo, si preoccupa più di giudicare il cibo che di insultare i concorrent­i. Léveillé, francese che da una vita lavora in Italia e che parla la nostra lingua più correttame­nte di una discreta parte di italiani, si rifiuta intelligen­temente di interpreta­re il ruolo del francese arrogante e cattivo e sembra aver quasi perso, dopo 25 anni in Italia, perfino la erre francese (bellissimo il modo asciutto nel quale a un certo punto ha corretto Berton, che aveva sbagliato a leggere il biglietto scritto da un concorrent­e, come se fosse normale per uno straniero correggere un madre lingua). E nemmeno una umorista di assoluta classe come Sabina Guzzanti troverebbe spunti per imitare Isabella Potì, anche lei come i due colleghi più interessat­a a parlare di cibo e di serietà I protagonis­ti di Il ristorante degli chef, in onda il martedì su Raidue. Da sinistra: Philippe Léveillé, Isabella Potì e Andrea Berton nell’approccio alla cucina che a insultarli davanti alle telecamere.

PERCHÉ SE C’È UNA COSA

che il trio di Il ristorante degli chef ha capito è che la formula del disprezzo, del clima di inutili abusi verbali, è ormai datata. Ha regalato il successo a tanti chef stranieri nelle edizioni internazio­nali dei vari Masterchef e Hell’s Kitchen, in Italia ha creato momenti di tv interessan­te. Certo, c’era Bastianich con «vuoi che muoro», sadico verso i concorrent­i e irridente verso gli altri giudici (celebre l’intervista in cui attaccava Cracco «presuntuos­o» e Cannavacci­uolo reo di parlare con l’accento napoletano), Bruno Barbieri dal mood sarcastico che riesce a suonare vagamente offensivo anche quando probabilme­nte cerca di non esserlo, Cracco che alza la voce tipo sergente dal cattivo carattere dei film americani.

PIÙ CHE ALTRO

l’elemento drammatico di Il ristorante degli chef, nel quale un gruppo di dilettanti che nella vita fanno altro cercherà di far funzionare la cucina di un ristorante con ospiti più o meno famosi, è che

si sentivano dire, già durante la prima puntata, cose sconfortan­ti.

«Sono sempre tanto tanto indecisa su come impiattare», diceva una. Un altro si dilungava nell’esegesi del suo percorso creativo finché alla fine Berton si trovava costretto a chiedere «Mi fai assaggiare?». C’era quello che ripensa il ceviche latinoamer­icano «ma con materie prime siciliane», e poi ecco piatti dai nomi come “mais su tela” nel quale però né io da casa né i giudici in loco riuscivano a intravvede­re il mais. Insomma un descensus averni nell’Italia degli aspiranti chef che hanno visto troppi video su YouTube e compulsato troppi blog di cucina. Quasi si preferiva il concorrent­e -- eliminato alla prima prova -- che aveva preparato quello che doveva essere il suo piatto più efficace e collaudato ma che sembrava, a me come ai giudici, una mostruosam­ente banale insalata di riso. Almeno lui ci ha risparmiat­o la mini-conferenza sulla Bitterswee­t Symphony dei sapori del suo piatto.

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