IL LABORATORIO LA CITTÀ CHE S’INTERROGA
Torino ha da sempre due anime, la città-capitale e la città-fabbrica, il centro e le zone più esterne come Falchera e Vallette. Qui i problemi della modernità si confrontano con l’anima antica dei paesi inglobati dalla città. Così dalla dialettica fra centro e periferia nascono i semi del futuro
AALLA FERMATA DEL 4
si capiva già come sarebbero andate le elezioni. Mancavano tre settimane al crollo della Seconda Repubblica, ammesso e non concesso che ne sia cominciata una terza. La pensilina del tram che percorre corso Giulio Cesare era un confine immaginario, tra loro e noi, ognuno sulla sua sponda. Gli italiani si tenevano lontani, mugugnando frasi piene di rabbia su quella presenza continua e costante di extracomunitari. Il Grande Risentimento Nazionale era già in bella mostra nell’ultimo lembo della città.
Il quartiere Barriera di Milano comincia proprio su questa linea diritta, appena dopo il mercato di Porta Palazzo. È la periferia fragile per definizione, sin da quando nei primi del Novecento nacque il quartiere oltre la Reale Strada d’Italia, che oggi si chiama corso Vercelli. Il Comune la definisce un’area «caratterizzata da notevoli criticità a livello fisico-ambientale e socio-economico», un discreto giro di parole per definire una pentola in continua ebollizione, con un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media e la più alta percentuale italiana di residenti stranieri.
Le periferie di Torino conservano ancora qualcosa dei paesi che furono, mescolando un’anima antica e problemi moderni.
A Barriera, alle Vallette, alla Falchera si capiscono l’anima e i problemi di una città, e al tempo stesso ci si affaccia sul nostro futuro prossimo. Nei loro bar, nelle ultime piole ci sono le tracce di una identità forte, sopravvissuta a cambiamenti drastici. Non c’è nessun’altra città italiana che abbia subito tre trasformazioni nel giro di 150 anni. Capitale politica e militare, centro industriale, centro post-industriale, qualunque cosa questo significhi.
DEV’ESSERE PER IL CONTINUO
cambio di pelle che i torinesi amano farsi così tante domande sulla propria identità, che poi è uno dei tanti modi possibili di amare la città dove si è nati o si vive. Qui esiste ancora uno spirito civico e civile che si traduce in dubbi e dibattiti continui sulla direzione da prendere in quanto comunità. Non è un esercizio riservato solo alle élite, ma viene praticato di continuo nelle assemblee pubbliche di ogni circoscrizione o nei comitati di quartiere che spuntano ovunque. È il destino di chi sente su di sé una vocazione alla diversità, una città che si considera diversamente italiana, e per questo sente di non essere amata dal resto del Paese. Il paradosso è che invece, per capire, sempre da qui bisogna passare. Ma il centro è spesso cieco, e la verità si vede solo dai margini. Come a Barriera di Milano, che fu proletaria e operaia: la rivolta del pane dell’agosto 1917, la prima Casa del popolo, incendiata dai fascisti nel 1921.
Il racconto delle due città fatto da Chiara Appendino – le periferie abbandonate opposte alle luci del centro – fece breccia fino a diventare l’ago della bilancia che nel giugno 2016 decretò l’inattesa sconfitta di Piero Fassino.
Quell’evento segnò anche la fine di un esperimento all’epoca inedito. Nel 1993, il patto siglato tra politica e società civile fece