I cooperanti? Non cercano il pericolo
Ma sanno che può fare parte del mestiere
Un marito scrittore ha seguito la moglie cooperante in Paesi flagellati da guerre e carestie. Ha imparato che l’aiuto internazionale professionale è uno strumento democratico per lo sviluppo. Perché non arriva da santi, ma da persone reali con passioni, ideali e conoscenze
NEGLI ULTIMI DIECI ANNI
sono stato il marito al seguito di una cooperante internazionale in posti che avevo appena sentito nominare (talvolta nemmeno quello) e in altri in cui avevo giurato a me stesso che non avrei mai messo piede tanto erano pericolosi, sporchi, miserabili. Quando l’ho conosciuta lavoravo con le persone senza dimora. Le dissi che odiavo i traslochi, la mistica del viaggio alla Bruce Chatwin e non capivo fino in fondo il senso della cooperazione internazionale «con tutto quello che c’è da fare per i poveri in Italia». La mia futura moglie, Alessandra, mi guardò divertita. Meno di un anno dopo ero al suo fianco in un campo profughi palestinese del Libano meridionale. Con lei sono rimasto bloccato tre giorni in casa per uno scontro armato tra fazioni in un quartiere di Beirut; con lei sono passato su un viadotto dieci minuti prima che un’autobomba lo facesse saltare in aria per un attentato.
Certo, la cooperazione può anche essere un mestiere pericoloso, ma se fatta con criterio meno di tanti altri. Nel 2017 in Italia le vittime sul lavoro sono state 1.029, quasi 86 al mese.
Eppure ogni volta che un cooperante viene rapito si riaccendono le polemiche, sempre più spesso. Se la vanno a cercare! Beh, non è vero.
SEGUENDO MIA MOGLIE
per il suo lavoro, ho ricevuto sassate e sputi, anche se erano rivolti a lei perché indossava un velo da cui uscivano ciocche di capelli biondi. Mi ha fatto dormire in posti meravigliosi dentro baracche piene di topi, scarafaggi e rettili e lavare con l’acqua piovana razionata. Nel deserto, mentre lei