Corriere della Sera - Sette

Ogni fiume ha il suo capo Così la Cina lotta contro l’inquinamen­to

- Pulizia del fiume a Shaoxing, nello Zhejiang (Cina)

CAPO! CAPO-FIUME!!

In Cina questo non è un appellativ­o da parcheggia­tore abusivo: è invece la qualifica con cui Pechino conta di risolvere il problema – enorme – dell’inquinamen­to delle acque interne. Fiumi, appunto, e laghi. Ne sono stati nominati quasi un milione: trecentomi­la capi-fiume a livello di province, città e contee, il resto nei villaggi. Cosa debbano fare, è chiaro fino a un certo punto. È chiaro invece il principio:

saranno responsabi­li della pulizia dei corsi d’acqua, che siano loro a organizzar­la o che ingaggino qualcuno per occuparsen­e. È un secondo lavoro, non pagato.

I capifiume, però, possono sperare che un buon risultato serva a far carriera nel primo impiego. Di eventuali sanzioni, peraltro, non si dice ancora nulla.

NON SI TRATTA PERÒ

dell’ennesima parcellizz­azione del potere di uno Stato autoritari­o. È un tentativo reale di risolvere i gravi problemi di inquinamen­to. Sono molti i Paesi a soffrirne (perfino l’Iraq, leggete il reportage da Bassora di Marta Bellingrer­i e Alessio Mamo, da p. 76). La Cina è fra quelli messi peggio: il passaggio dal socialismo maoista contadino alla deregulati­on iperliberi­sta avviata da Deng, sotto questo punto di vista, è stato mortifero. Un terzo delle acque non è potabile, né si può pensare di mangiare i pesci che ci nuotano. Il 15 per cento delle risorse idriche è inutilizza­bile perfino per agricoltur­a e industria, impestato da scarichi di produzione, pesticidi e fertilizza­nti. Il sistema dei capi-fiume ha le sue radici in un incidente ambientale che ha lasciato il segno, in Cina. Nel lago Taihu, uno dei più grandi del Paese – non lontano da Shanghai – nel 2007 ci fu un’invasione di velenose alghe blu: cinque milioni di abitanti della prospera città di Wuxi si trovarono a non sapere cosa bere. Un campanello d’allarme che le autorità presero sul serio. S’inventaron­o lì i capi-fiume: ufficiali incaricati di controllar­e le risorse idriche di tratti dei corsi d’acqua. Responsabi­li individual­mente, veniva dato loro il potere di impartire ordini alle altre autorità dell’area. La qualità dell’acqua migliorò, altre città – da Tianjin a Qingdao – hanno copiato il sistema. Cina

IL VECCHIO MOTTO CINESE

“Nove draghi governano l’acqua” – molte teste, nessun colpevole – coi capi-fiume è caduto. Sui cartelli vicino a fiumi e laghi campeggia un codice QR che corrispond­e al capo-fiume, basta un telefonino per rintraccia­rlo. La chiamano governance dell’acqua:

«Finora era difficile far sì che le autorità competenti cooperasse­ro per combattere l’inquinamen­to. Metterne una sopra le altre scioglie l’ingorgo di poteri»,

spiega Sabrina Habich-Sobiegalla (Istituto di studi cinesi della Free University di Berlino). Di certo il sistema è allineato ai principi della “civiltà ecologica” che Pechino sta promuovend­o. Gli slogan? Eccone due: “Se l’ecologia prospera, l’economia prospera, la civiltà prospera” e “Le acque limpide e le montagne verdeggian­ti sono tesori inestimabi­li”. Sono i capifiume la soluzione al problema dell’inquinamen­to? Da soli, ovviamente no. Ma intanto fissano una responsabi­lità. Ed è tutt’altro che secondario: anche per chi volesse prender esempio.

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