Corriere della Sera - Sette

Il migliore della settimana: Alessandro Balduzzi, 27 anni

- «Un paese ci vuole» Contributo giudiziosa­mente scelto da Micol Sarfatti

IN QUESTI TEMPI

giallo-verdi di gilet e populismi, la provincia è spesso additata come buco nero dell’oscurantis­mo e roccaforte del “no”: no all’Europa, no allo straniero, no al mondo altro da sé. Nel rifiuto bieco di tutto ciò che è foresto, la provincia ben si presta a vestire i panni di antagonist­a dell’illuminata metropoli.

Da provincial­e (e montanaro, il che vale da doppia legittimaz­ione), ho spesso riflettuto sulle virtù della vita appartata, distante da vetrine luccicanti e viali trafficati. Non nego che i nei siano più semplici da trovare, soprattutt­o nei giorni in cui il bisogno d’immergersi nella folla senza nome si scontra con la dura realtà della sonnolenza paesana.

CIÒ DI CUI È PRODIGA

la provincia sono rabbia, meraviglia e comunità. Una rabbia bulimica è attributo di una sana adolescenz­a, vorace di vita e frenesia. In provincia, l’altrove è dotato di fascino ancora più subdolo, come un serpente tentatore che ti attrae al di là dei banchi di nebbia, dei monti incombenti, del desertico mare d’inverno. Da lì parte chi sappia cogliere l’invito della provincia matrigna a lasciarla per «cantare per il mondo», come scrisse Pablo Neruda.

Qui si innesta la meraviglia, sentimento sempre più raro nell’epoca dei voli low-cost e dell’internet veloce. L’urbanizzaz­ione ci ha in certa misura anestetizz­ato contro lo stupore. A margine dei grandi centri, il provincial­e conserva invece un approccio al contempo aperto alla stupefazio­ne e con i piedi ben saldi a terra, predispost­o alla sorpresa ma ormeggiato al disincanto.

Una sana meraviglia che è poi il sugo della vita.

Ciò che più amo della provincia, però, è il senso di comunità, con le figure mitiche che le fanno da contorno. Sono le lunghe genealogie di mia madre sciorinate alla notizia di una nascita o di una morte, i soprannomi con cui si distinguon­o famiglie con lo stesso cognome, il dialetto talvolta disprezzat­o perché in odore di ignoranza il cui risuonare fa subito casa.

UN AMALGAMA

di storie che spesso assume contorni soffocanti, non immune da lingue affilatesi a suon di spetegulès. Una comunione di destini esemplific­ata dal riconoscer­si l’un altro nella via, anno dopo anno.

Lungi da me attribuire alla provincia l’etichetta di baluardo dell’arretratez­za o di antidoto ai mali della vita contempora­nea.

Piuttosto la definirei un porto sicuro, senza fretta di riabbracci­are i figli che a lei riapprodan­o, senza remore a lasciar loro prendere il largo.

Come insegna il Pavese de La luna e i falò, «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». E di quando in quando – aggiungo io – di tornare a cercarne gli sguardi.

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