Il migliore della settimana: Alessandro Balduzzi, 27 anni
IN QUESTI TEMPI
giallo-verdi di gilet e populismi, la provincia è spesso additata come buco nero dell’oscurantismo e roccaforte del “no”: no all’Europa, no allo straniero, no al mondo altro da sé. Nel rifiuto bieco di tutto ciò che è foresto, la provincia ben si presta a vestire i panni di antagonista dell’illuminata metropoli.
Da provinciale (e montanaro, il che vale da doppia legittimazione), ho spesso riflettuto sulle virtù della vita appartata, distante da vetrine luccicanti e viali trafficati. Non nego che i nei siano più semplici da trovare, soprattutto nei giorni in cui il bisogno d’immergersi nella folla senza nome si scontra con la dura realtà della sonnolenza paesana.
CIÒ DI CUI È PRODIGA
la provincia sono rabbia, meraviglia e comunità. Una rabbia bulimica è attributo di una sana adolescenza, vorace di vita e frenesia. In provincia, l’altrove è dotato di fascino ancora più subdolo, come un serpente tentatore che ti attrae al di là dei banchi di nebbia, dei monti incombenti, del desertico mare d’inverno. Da lì parte chi sappia cogliere l’invito della provincia matrigna a lasciarla per «cantare per il mondo», come scrisse Pablo Neruda.
Qui si innesta la meraviglia, sentimento sempre più raro nell’epoca dei voli low-cost e dell’internet veloce. L’urbanizzazione ci ha in certa misura anestetizzato contro lo stupore. A margine dei grandi centri, il provinciale conserva invece un approccio al contempo aperto alla stupefazione e con i piedi ben saldi a terra, predisposto alla sorpresa ma ormeggiato al disincanto.
Una sana meraviglia che è poi il sugo della vita.
Ciò che più amo della provincia, però, è il senso di comunità, con le figure mitiche che le fanno da contorno. Sono le lunghe genealogie di mia madre sciorinate alla notizia di una nascita o di una morte, i soprannomi con cui si distinguono famiglie con lo stesso cognome, il dialetto talvolta disprezzato perché in odore di ignoranza il cui risuonare fa subito casa.
UN AMALGAMA
di storie che spesso assume contorni soffocanti, non immune da lingue affilatesi a suon di spetegulès. Una comunione di destini esemplificata dal riconoscersi l’un altro nella via, anno dopo anno.
Lungi da me attribuire alla provincia l’etichetta di baluardo dell’arretratezza o di antidoto ai mali della vita contemporanea.
Piuttosto la definirei un porto sicuro, senza fretta di riabbracciare i figli che a lei riapprodano, senza remore a lasciar loro prendere il largo.
Come insegna il Pavese de La luna e i falò, «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». E di quando in quando – aggiungo io – di tornare a cercarne gli sguardi.