FONDAZIONI, LA
Sono una fitta costellazione di spazi aperti al pubblico e ormai da decenni lavorano accanto ai musei. Luoghi di sperimentazione, attenti ai giovani artisti
Un universo variegato, complicato, difficile (molto difficile) da definire. Pubblico e privato, musei e fondazioni, collezionisti e dealer che (in questi giorni) si misurano con la retrospettiva su Richard Artschwager curata da Germano Celant al Mart di Rovereto, le variazioni sul tema del collezionismo di Wes Anderson alla Fondazione Prada di Milano, i frammenti settecenteschi della Real Fabbrica di Porcellana di Capodimonte riveduti e corretti dalla (sud) coreana Yeesookyun, l’acquisizione dell’Archivio della Dena Foundation for Contemporary Art all’interno del CRRI, il Centro di Ricerca del Castello di Rivoli (una delle realtà storiche del contemporaneo italiano). O che, come nel caso del Centro Pecci di Prato (prima istituzione italiana nata da zero nel 1988 con l’obiettivo di presentare, collezionare, documentare e supportare le ricerche artistiche contemporanee) propone per la stagione 2019-2020 una sorta di trans-programmazione che mette insieme artisti di generazioni anagraficamente lontane (Jacopo Miliani e Fabio Mauri, Chiara Fumai e Gio Ponti) «uniti dalla medesima capacità di saper guardare al proprio tempo, interpretarlo, incidere su di esso». E dunque di essere in qualche modo contemporanei.
Le difficoltà
Certo non è facile oggi (ma sicuramente è molto più facile di ieri) essere (artisti) contemporanei in Italia, Paese della classicità trionfante, del Rinascimento che sbuca in ogni piazza, dei musei che traboccano di Botticelli, Michelangelo, Raffaello. Ma non sembra essere più impossibile. Anche se Ludovico Pratesi, nel suo Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea. Mostre, musei, arti (Castelvecchi, 2017) fa notare
LA STRATEGIA
come alla fine dell’Ottocento l’Italia, unita da poco più di vent’anni, avesse lanciato la prima Biennale d’arte contemporanea a Venezia, diventata la più importante del mondo (quella in corso, fino al 24 novembre è la numero 58), «un gesto coraggioso» che però «non avrebbe avuto seguito» perché «all’alba del XXI secolo, il nostro Paese non possiede un grande museo degno di competere con la Tate Modern, il Moma o il Pompidou».
Quello che sembra però mancare davvero alle nostre istituzionali del contemporaneo, non sono i musei, ma un’effettiva certificazione di status, forse più a livello nazionale che internazionale (considerate le partnership avviate con successo da realtà come l’Hangar Bicocca e il Pac di Milano). «Le Fondazioni d’arte contemporanea sono una componente essenziale nel sistema dell’arte contemporanea italiano», spiega Patrizia Re Rebaudengo che nel 1995 ha dato vita a Torino all’omonima Fondazione che oggi può vantare una succursale spagnola al Matadero di Madrid, «Diffuse su tutto il territorio nazionale, formano una fitta costellazione di spazi aperti al pubblico, attenti alle ricerche delle diverse generazioni artistiche italiane e internazionali, con un occhio soprattutto a quelle più giovani. Sono luoghi di sperimentazione sia nel campo delle mostre sia nell’ambito della relazione con i visitatori. Trent’anni fa, quando ancora non esistevano musei pubblici, il Maxxi di Roma nasce nel 2010, istituzioni come la Fondazione Ratti di Como, la Fondazione Pistoletto Cittadellarte a Biella e come la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che ho costituito a Torino nel 1995, hanno fatto da apripista per la nascita di istituzioni oggi divenute molto numerose. Lavorano accanto ai musei per diffondere la cultura della contemporaneità, investono intelligenze e risorse sull’immaginario e sul futuro, riconoscendo all’arte una precisa funzione nella vita della nostra società».
La sorpresa è forse che il pubblico per l’arte contemporanea in Italia c’è (e che l’arte italiana moderna e contemporanea piaccia molto all’estero lo confermano i successi newyorkesi-americani del Center for Italian Modern Art e di Magazzino). Ne sono convinti all’Amaci, l’associazione fondata nel 2003 che oggi riunisce 24 musei d’arte contemporanea italiani (dei 4.026 censiti sono 415 quelli d’arte moderna e contemporanea), diversi tra loro per dimensioni, storia, gestione e contesto territoriale di appartenenza, un patrimonio di oltre 100.000 opere e oltre 3.000.000 di visitatori l’anno. Un’indagine commissionata sempre dall’Istat, realizzata dal Centro Studi e Ricerche Associazione Civita nel 2007, aveva invece ben fotografato il pubblico del contemporaneo: prevalentemente femminile, molto giovane, ben istruito e assai fedele (la ripetizione della visita al museo era confermata nel 40 dei visitatori), che accoglie volentieri le iniziative che promuovono l’arte (il 58,6% degli intervistati aveva dichiarato di aver visitato oltre 3 musei nei dodici mesi precedenti e il 53,9% di aver fatto altrettanto per le mostre).
La soluzione
Forse la (banale) soluzione è “fare sistema”. Come è successo quest’anno in occasione della Giornata del Contemporaneo (sabato 12 ottobre) che ha visto l’artista Eva Marisaldi (che ha firmato l’immagine guida della giornata rielaborando un frame tratto dal suo video Legenda del 2002) protagonista di una mostra diffusa su tutto il territorio italiano con i musei Amaci che hanno ospitato una selezione di opere dell’artista (al Maxxi è stata esposta l’installazione Base del 2000, vincitrice del Premio per la giovane arte italiana). Della stessa opinione Luigi Fassi che dal 2018 dirige il Man di Nuoro (vent’anni di vita appena festeggiati): «Il Man oggi è più solo un museo di arte contemporanea, ma un landmark territoriale, un fortissimo attrattore turistico, un’istituzione che esce dai confini della città in cui è di casa per diventare utopia concreta”. Quella di un “contemporaneo italiano”.