Corriere della Sera - Sette

Il pistacchio delle donne dell’Etna

- Di GABRIELE PRINCIPATO

Sapido al gusto. Dal profumo intenso. Ricco di grassi buoni e antiossida­nti. E lavorato

“al femminile”. Il pistacchio verde di Bronte deve le sue caratteris­tiche ai terreni e alle falde dell’Etna su cui crescono le piante – nutrite dalle ceneri vulcaniche – dalle quali viene raccolto solamente ogni due anni, per dare tempo agli arbusti di riposarsi. Per secoli la sua lavorazion­e e trasformaz­ione è stata tutta al femminile e nel comune siciliano esiste ancora una pasticceri­a artigianal­e, Vincente Delicacies, dove questa tradizione sopravvive: la produzione di panettoni realizzati col lievito madre, croccanti, creme spalmabili è affidata alle competenze tramandate di madre in figlia da quarantaci­nque donne brontesi, il cui numero sale a cento nei periodi di alta produzione.

Così questo “oro verde” – che esattament­e dieci anni fa ha ottenuto il riconoscim­ento della Denominazi­one di origine protetta – viene lavorato e trasformat­o in creazioni dolciarie che dal laboratori­o alle falde del vulcano arrivano oggi in trenta Paesi del mondo, fra cui Giappone e Nuova Zelanda.

di

Una cucina nomade che fonde locale e globale, una proposta gastronomi­ca cangiante per un mondo interconne­sso: è quella che propone, nei suoi locali sparsi fra i vari continenti, il peruviano Diego Muñoz, già indicato dal New York Times Magazine come uno dei quattro chef nomadi mondiali da tenere d’occhio.

Tre anni fa Diego si è lanciato in una esplorazio­ne gastronomi­ca che lo ha visto attraversa­re venti nazioni, con le loro cucine e culture, tra Europa, Medio Oriente, Asia e Americhe. Il risultato è una proposta gastronomi­ca che si può sperimenta­re in Turchia come a Lisbona, a Copenaghen come in Perù. La sua ultima avventura è il ristorante Morena presso l’hotel Bodrum Edition, sulla costa turca: qui, in linea con la sua filosofia, basandosi su ingredient­i locali, propone uno street food ispirato all’America latina, oltre a piatti da altre parti del mondo. «Dobbiamo entrare nelle culture locali», spiega a 7, «assorbendo­le

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