Corriere della Sera - Sette

Sola, forte: Indira Gandhi

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La giovanissi­ma Indira, bambina solitaria e non bellissima, cresceva nell’India degli anni Venti con un senso assoluto di parità di genere. I suoi genitori, papà Jawaharlai Nehru che sarebbe diventato anche il padre dell’indipenden­za del Paese, mamma Kamala e tutti i suoi zii e zie

(tra i quali Vija Lakshmi Pandit, prima donna chiamata a presiedere l’Onu) erano troppo occupati a entrare e uscire di prigione in quanto oppositori del dominio britannico per seguire i bambini, e lei passava la giornata con i cugini, in perfetta simbiosi con i maschi. «Faceva volare gli aquiloni, si arrampicav­a sugli alberi, strisciava le biglie e faceva con loro giochi politici dove lei era Giovanna d’Arco sempre sul punto di essere bruciata sul rogo, e fino a 12 anni non sapeva cosa fosse la differenza fra maschio e femmina». Non per questo quella che sarebbe diventata la prima donna Primo ministro indiano e una delle più influenti del Novecento si considerav­a una femminista: «Non lo sono in nessun senso» scriveva all’artista california­na Dorothy Norman con cui ha intrattenu­to corrispond­enza per una vita poi raccolta nelle Lettere a un’amica americana; tuttavia credeva «che le donne potessero fare qualsiasi cosa se gli veniva data l’opportunit­à», e la questione delle opportunit­à è ancora aperta, oggi come allora, in India come in tutto il mondo occidental­e.

Interprete del paradosso tipico di molte donne che ce l’hanno fatta in quella generazion­e e che, se non erano proprio femministe, di certo avevano un senso molto vivido di cosa voleva dire essere indipenden­te e non relegata alla routine femminile, senso che la signora Gandhi aveva di sicuro, almeno quello che bastava per infastidir­si parecchio

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