IO SONO STATO FELICE DAVVERO»
la felicità dell’ingegner Veronesi, e di tutti noi, era tangibile».
In un’intervista suo fratello alla domanda sul perché non abbia figli, risponde: “mio fratello ne ha cinque”.
«Sì, dividiamo anche i miei figli».
Nel romanzo c’è una grande quantità di dolore.
«Serviva una vita intera, quella di Marco, per contenerlo tutto». Eppure.
«Freud racconta di una passeggiata in montagna con un giovane poeta – chiaramente Rilke – che già pensa all’inverno, alla bellezza destinata a sparire, quando sono ancora in estate. Freud gli spiega il senso della caducità. In sintesi gli dice: goditela».
D’accordo con Freud? sentimentale è maggiore».
E’ questo il senso del libro?
«Solo dopo, a scrittura terminata, mi sono accorto che l’assunto del romanzo era proprio il bisogno di superare lutto e morte».
Ovvero?
«Jovanotti, a cui era morto il fratello da dieci giorni, iniziando la promozione del nuovo disco, disse: “è un dolore immenso, spero che non se ne vada mai”. Mi colpì».
In che modo?
«Stava dicendo: finché c’è il dolore mi tengo dentro mio fratello, me lo porto appresso. Jovanotti dice la cosa più controcorrente sul dolore: vuole tenerlo. Il dolore è diverso dal lutto».
Come reagisce Marco Carrera ai lutti?
«Concentra l’energia su ciò che
I libri danno posterità?
«Certo, un po’ di posterità la danno. Un giorno arriverà uno studente a fare una tesi su di me suggeritagli dal professore: “fai una tesi sui minori italiani”».
Ma?
«Di quella posterità non me ne faccio niente. Quella posterità non ride, non piange».
Qui, come in altri suoi libri (Profezia, Terre rare) racconta, attribuendola ai genitori di Marco, la morte dei suoi genitori (a distanza di un mese l’uno dall’altro).
«Subito dopo la loro morte sono stato trascinato da mia moglie in America. Un viaggio che desideravo da sempre, non in quel momento però. In quel momento lo ha desiderato lei per me».