Alda Merini, follia è poesia
Fu una storia d’amore precoce ed eccessiva, una fascinazione alla Paoli/Sandrelli ante litteram, perché qui eravamo nel 1947, la passione che scoppiò fra la sedicenne Alda Merini, poetessa in erba già pubblicata da Guanda e il poeta Giorgio Manganelli, 26 anni già sposato con figlia piccola.
E che deflagrò nella famiglia piccolo borghese di Alda con piccolo scandalo: uno zio, netturbino, prese a botte lo scrittore per strada inseguendolo con la scopa di saggina, come raccontò poi Alda nella Scopata di Manganelli. E subito la narrazione del loro amore, complesso, intermittente, dispettoso, fu sublimata in poesia. Dopo il ciclone Alda lui scrisse che la figura femminile era «simile al tetano che inchioda le mascelle», lei raccontò che lui non è che brillasse per potenza, «e non ti sfiorava se prima non si era fatto dieci sedute di psicanalisi, mentre mio marito, l’Ettore Carniti, era un assatanato di sesso».
Proprio in quell’anno, l’Alda comincia a “vedere le prime ombre della sua mente” e viene brevemente internata. Seguiranno 46 elettrochoc, fuori e dentro dai manicomi, 36 amanti, un marito e quattro figlie molto amate e poco seguite fra enormi sensi di colpa: la costruzione di una vita che lei ha messo in poesia senza pudori e che è già un piccolo capolavoro solo a raccontarla, anche senza le poesie e gli aforismi di Alda a illuminarla dal di dentro. Sempre un passo oltre i drammi della sua esistenza, con un occhio mai cupo sulla realtà, spesso divertito, che coglie un arco tematico vastissimo: dalle sue personalissime flagellazioni («Quando gli infermieri bastardi ci sollevavano le gonne putride e ghignavano, ghignavano verde, era in quel momento preciso che volevamo la lapidazione») ai temi che dibatte la contemporaneità: «Se le donne sono frivole è perché sono intelligenti a oltranza». Sempre fuori dai codici, mai vinta, sia nel periodo buio e misero dell’emarginazione, sia quando la vita, nella sua ultima parte, la incoronò poetessa con pubblica lode, e fu più volte candidata al Nobel, accolta alfine nel Famedio del Cimitero monumentale di Milano quando morì, il primo novembre 2009. «Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo in manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno… per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara».
Si divertiva con il successo come il gatto col topo, andava da Maurizio Costanzo ma manteneva il distacco ironico puntuto, si faceva fotografare e intervistare con l’amica sigaretta in mano, ma capricciosamente provocava anche sfidando il codice ufficiale di bellezza con il suo corpo candido e sfatto fotografato seminudo. Alla fine conquistò tutti, gli amici clochard del quartiere Ticinese a Milano, le figlie che riuscirono ad accettare e ad amare quella madre disfunzionale e che misero in poesia anche loro i loro dolori, il mondo della cultura e dello spettacolo, con Valentina Cortese che rappresentò il suo Magnificat, un incontro con Maria, e Milva che incise Milva canta Merini.
Ma la sua prima fan fu la figlia di Giorgio Manganelli, Lietta, che la amò subito, quando la incontrò 16enne nel salotto rosso del padre con altri intellettuali. La chiamava Ada, perché allora era troppo piccola per dire Alda, e andava matta per le sue favole, «dolci e tenere storie di lavanderine che, lavando i panni nel Naviglio, sognando il loro fidanzato, finivano per addormentarsi e scivolavano nel canale», favole strane magari, ma di sicuro più accattivanti di quelle cervellotiche e truci a cui Lietta era stata abituata da papà Giorgio. Una fascinazione imprevedibile e potente fra la poetessa e la bambina che è continuata fino alla fine, spesso Alda telefonava di notte a Lietta, come ad altri, per dettare le sue poesie. Diceva: «Scrivi!». Ed elargiva la sua poetica (e ormai preziosa) sofferenza. Sempre generosa di sé e del suo dono, degli amori, delle emozioni, delle pazzie.