Se nel mare di “spam” spunta la cortesia
«Peccato non averti più con noi». L’altro giorno ho ricevuto una mail con questo titolo. Capirete che non ce l’ho fatta a riservarle il solito trattamento che applico, colpevolmente e quasi in automatico, a tanta posta elettronica per così dire istituzionale, e cioè cestinarla con un rapido swap del pollice destro. La curiosità mi ha sopraffatto, l’ho aperta e l’ho letta.
Cominciava così: «Questo è un addio. Sono mesi che non leggi i nostri messaggi, per questo abbiamo pensato di non disturbarti più e non inviartene altri. Se invece desideri continuare a ricevere le nostre email clicca qui».
La mia prima reazione è stata: alleluia, uno in meno. Ma il messaggio era così inusuale, così cortese, così diverso dalla protervia commerciale che ci insegue quotidianamente sulla Rete, che ho finito per cliccare dove richiesto, riattivando così la mia iscrizione. E ringrazio pubblicamente la Cida autrice della missiva, che poi è la Confederazione dei dirigenti d’azienda, per la sensibilità dimostrata su un tema che ha a che fare con la nostra privacy. Moltissimi siti e indirizzi, quasi tutti direi, trattengono infatti i nostri contatti una volta che li hanno “catturati”, magari anche casualmente. Così, se li tocchi una volta sola, non te ne liberi più, come la carta moschicida.
Ognuno di noi ha i suoi persecutori. Alcuni benevoli, come quel museo del Nord Italia che ho visitato una volta e che in definitiva non mi chiede niente, ma continua a informarmi della sua vita quotidiana, perfino delle discussioni nel consiglio di amministrazione. Altri più venali, perché cercano di strappare soldi in ogni modo. Non so dire quanto mi sia pentito di aver comprato un biglietto aereo su un sito di offerte low cost, non mi ha più mollato; o di aver compilato tanto tempo fa un modulo in un cineforum di New York, che prosegue a comunicarmi il film di stasera come se abitassi al Village. Riceviamo così centinaia di mail inutili a settimana. Non tutte superano il filtro spam del nostro device, e provare a liberarsene è un lavoro troppo complesso per metterci mano.
In realtà la nuova normativa in materia di privacy impone alle aziende di smettere di usare i dati personali quando cessa il motivo per cui l’utente li ha forniti. Tipo: mi sono iscritto a un gruppo di discussione o a un sito di acquisti online, ma se smetto di usarlo dopo un po’ l’azienda deve cancellarmi. Il guaio è che decidere quanto tempo deve passare prima di essere “sganciati” è lasciato alla discrezione del mittente. Ci sono aziende che resistono fino a dieci anni, prima di rinunciare a un potenziale cliente.
Non dovrebbe funzionare così. Non spetterebbe a noi dover chiedere di essere dimenticati, dovrebbe essere una conseguenza automatica del nostro comportamento. Si potrebbe immaginare una sorta di silenziodissenso, all’opposto di quanto vale nella pubblica amministrazione. Se non mi sentite più, vuol dire che non sono più interessato a voi: dunque, per favore, lasciatemi in pace.
ma non è mai avvenuto.
Ogni volta che a Marie viene chiesto di raccontare e rivivere la violenza che ha subito — ben sette volte nella prima puntata — è come un colpo nello stomaco, un’ulteriore violenza che lo spettatore sente con lei. Tanto che è difficile andare avanti. È solo nella seconda puntata che si capisce davvero il senso di quello che si è visto: c’è un’altra scena del crimiun’altra vittima, un’altra detective — donna — che la interroga con l’attenzione e il riguardo che merita. Unbelievable, Incredibile, mostra e rende immediatamente comprensibile con la forza del racconto tv quella che gli esperti di violenza sulle donne chiamano «vittimizzazione secondaria», il fenomeno per cui i meccanismi giudiziari e forensi invece di proteggere la vittima di un crimine ripetono e amplificano la violenza che ha subito.
Trent’anni fa era stato un film, Sotto accusa, che era anche valso un Oscar a Jodie Foster, a denunciare la colpevolizzazione delle vittime di violenza sessuale nei processi, in cui spesso finivano — e tuttora finiscono — a doversi difendere dalle accuse degli avvocati di coloro che le hanno aggredite. Ma era rimasta una sorta di brillante eccezione: la maggior parte dei film e soprattutto delle serie tv (ormai il piatto forte nelle diete dell’intrattenimento globale) ha continuato a usare gli stupri come un mero espediente narrativo, il motore presto dimenticato di