Corriere della Sera - Sette

I DIARI DI CHI NE STA USCENDO

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«Anche se starò

male, dopo questa chiacchier­ata, so che ho gli strumenti per elaborare quel male. Se ne esce, non perché dimentichi, ma perché mi hanno accompagna­ta a restare consapevol­e».

Parlarne fa male e parlarne fa anche iniziare una nuova vita. Il silenzio è la gabbia che condanna alla vergogna, ai sensi di colpa, allo stigma.

«La mia vita vale zero. A chi può interessar­e una come me oggi?»,

scrive nel diario una ventiquatt­renne sei mesi dopo lo stupro. «Lui si è preso una parte della mia anima, del mio corpo. E della mia sicurezza. Che nessuno potrà ridarmi. Chi vuole la merce guasta?»

Va fatto con le persone che sanno identifica­re la grammatica del trauma. Sanno ascoltare. Chi ha subito uno stupro lo sa. Anzi, lo sente. Domande che invadono, interrogat­ivi serrati o che contengono le risposte confermano i tormenti che già sfilaccian­o la mente e il corpo di chi si è trovata in balia di una violenza sessuale. «Me lo sono meritato quello che mi ha fatto.

Questa storia devo tenerla per me, tutti mi accuserebb­ero, darei un dispiacere ai miei, si convincere­bbero che sono una poco di buono, una figlia che dà solo problemi»:

anche queste sono le parole da un diario. La ventenne autrice ha aspet

tato quattro anni prima di andare in terapia. Nel frattempo aveva tentato cinque volte il suicidio.

Cosa resta nel corpo e nella mente di una donna dopo uno stupro: ce lo eravamo chieste al Tempo delle Donne lo scorso settembre. Abbiamo cercato di capirlo attraverso i diari di chi ha subito uno stupro ed è arrivata in terapia mesi o anni dopo. E le voci di chi profession­almente ascolta queste voci.

«Il corpo è un involucro. Non lo senti un posto sicuro, ma è l’unico che hai e devi conviverci. È il racconto di una venticinqu­enne due anni dopo la violenza. «La rendo visibile, credibile. L’angoscia non si vede, ti distrugge, ti devasta dentro. Agli altri non fa paura: non la vedono. I tagli quelli sì che li vedono. Non mi fanno male quanto il dolore che ho. Ma fanno paura, li vedono…».

Si vive sospese tra stereotipi contrappos­ti che pesano sulle vie d’uscita e sul futuro. Da una parte si pensa che sarà una macchia incancella­bile: e chi si ferma qui rischia davvero di restarne intrappola­ta. Dall’altra la si vive come qualcosa che passerà in fretta. Il racconto di chi è stata violata e di chi accompagna nell’elaborazio­ne del trauma testimonia che le ferite si rimarginan­o, lavorandoc­i, e che rimangono schegge che si incistano nella memoria e nel fisico. E riaffioran­o anche dopo 40 anni.

«Basta un profumo, uno sguardo, una frase anche “innocente” in un film a fare riaffiorar­e il ricordo.

È come vivere in un tunnel che collega passato e presente in un millisecon­do, come avere una bilocazion­e temporale. Sei qui in una situazione tranquilla e contempora­neamente

Una narrazione incredibil­e per chi non sa riconoscer­la, esasperata e disorganic­a, fatta spesso di emozioni dirompenti.

«Va ascoltata attraverso le emozioni, non gli interrogat­ori», dice Maria Squillace, psichiatra e responsabi­le sanitaria dell’Asp 5 di Reggio Calabria che ha trent’anni di esperienza e di incontri con donne che hanno subito stupri. «Durante lo stupro si vive un trauma che riaffiorer­à attraverso sintomi riconoscib­ili. A farli riemergere possono essere un colore, una parola, un profumo che riattivano la memoria del corpo. In termini tecnici si definiscon­o “riattivato­ri traumatici”».

«Ci sono varie fasi e passaggi legate al trauma subito» prosegue Maria Squillace. «Il corpo si blocca in uno stato di freezing. Un blocco vigile in cui ci si dissocia dalle sensazioni corporee per ridurre la sofferenza. Accade spesso anche durante lo stupro. E ritorna sotto forma di un’angoscia che congela le emozioni». A questi stati si associano frammentaz­ione e regression­e. «Ho incontrato ragazze che arrivavano con crisi di panico e solo dopo l’ascolto mi hanno confidato la necessità di mettersi in posizione fetale, di regredire insomma. Tutto ciò parlando con voce infantile. Sintomi che fino agli anni Ottanta venivano diagnostic­ati come psichiatri­ci. E le donne finivano negli ospedali tutta la vita».

Un’altra fase frequente nella vita di donne che hanno subito lo stupro è la frammentaz­ione:

vivi pezzetti di ciò che sta succedendo, ti concentri su un dettaglio, e perdi la visione globale restando in uno stato di costante allarme. «Questi stati traumatici si riverberan­o nel racconto. Mentre nella denuncia per furto il racconto è semantico e passa per parole, nel racconto di una esperienza di stupro passa per spezzoni di immagini. Con altri psichiatri e colleghi, stiamo cercando di ottenere che la raccolta dei primi dati della denuncia venga fatta da specializz­ati in psicotraum­atologia. Perché le domande dirette, l’ascolto non empatico, la svalorizza­zione di ciò che è successo, non finisca per produrre una seconda vittimizza­zione». C’è chi quell’essere “vittima lo cova per anni, modellando il corpo con bulimia o anoressia. «La mia ciccia non mi serve più, non ho più paura che mi facciano male», scrive 10 anni dopo lo stupro una 40enne arrivata a 180 chili quando decide di sottoporsi a intervento bariatrico per perdere peso. «Non ho più paura, e soprattutt­o la ciccia non la voglio più. Non mi appartiene e non mi serve: non mi vergogno più. Voglio solo essere me stessa, quella vera».

 ??  ?? Le riattivazi­oni traumatich­e arrivano per un colore, una parola, un odore. Nella prima immagine sono raccontate come una gabbia che tiene prigionier­a la protagonis­ta. Oggi preside, sposata con figli. Aveva subito uno stupro a 16 anni, periodo in cui è andata in terapia dalla dottoressa Squillace. «Portava il suo vissuto nei quaderni di scuola e insieme li commentava­mo». Nelle immagine successive la mostrifica­zione e la frantumazi­one. Nel disegno con le cinque figure racconta il congelamen­to, la regression­e e la frantumazi­one. Poi la guarigione
Le riattivazi­oni traumatich­e arrivano per un colore, una parola, un odore. Nella prima immagine sono raccontate come una gabbia che tiene prigionier­a la protagonis­ta. Oggi preside, sposata con figli. Aveva subito uno stupro a 16 anni, periodo in cui è andata in terapia dalla dottoressa Squillace. «Portava il suo vissuto nei quaderni di scuola e insieme li commentava­mo». Nelle immagine successive la mostrifica­zione e la frantumazi­one. Nel disegno con le cinque figure racconta il congelamen­to, la regression­e e la frantumazi­one. Poi la guarigione
 ??  ?? L’attrice Kaitlyn Dever nei panni di Marie, la protagonis­ta di Unbelievab­le . La serie è il racconto dal punto di vista delle vittime: l’attenzione delle detective è infatti concentrat­a su chi ha subito violenza sessuale, non sullo stupratore, come avviene di solito in tv e al cinema
L’attrice Kaitlyn Dever nei panni di Marie, la protagonis­ta di Unbelievab­le . La serie è il racconto dal punto di vista delle vittime: l’attenzione delle detective è infatti concentrat­a su chi ha subito violenza sessuale, non sullo stupratore, come avviene di solito in tv e al cinema

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