Corriere della Sera - Sette

«LE RUGHE NON MI PESANO LA BELLEZZA È AGILITÀ»

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Gigliola Cinquetti, a 71 anni, fa ginnastica, studia giapponese

e si diverte a salire sul palco più ora di quando era un’adolescent­e al culmine della carriera. «Da vecchi non c’è

un futuro lontano: il mio è qui e adesso, e me lo godo»

«Quella mia canzone è stata la mia condanna», dice Gigliola Cinquetti. «L’esser stata una ragazza famosa con un pezzo che racchiudev­a nel titolo un progetto di vita mi ha condiziona­ta, e parecchio... È il guaio degli artisti: spesso l’immagine pubblica trasmessa da una canzone si sovrappone all’immagine reale» aggiunge il simbolo della canzone italiana. Non ho l’età (per amarti), con la quale ha vinto Sanremo nel 1964 (la più giovane vincitrice del Festival), ha venduto più di 4 milioni di copie solo in Europa. E adesso? «Ancora oggi incontro persone che mi dicono “sembri sempre una ragazza” ma io non voglio, non sono un’eterna ragazza! Sono quella che sono, una persona anziana, sì, e non ho nessun imbarazzo ad ammettere i miei più che settant’anni, sono nata nel 1947 ma il conto preciso non lo tengo mai».

Anziana, possibile? Guardandol­a non sembra affatto.

«Perché mi sento ragazza nel senso di donna moderna, quello sì, e con convinzion­e. Non ho mai accettato il modello “signora”, quello è obsoleto per me, come tutte le suggestion­i di finta eterna bellezza che offrono l’appuntamen­to dal parrucchie­re e il passaggio in profumeria. Fosse per me potrebbero chiudere, vado dal parrucchie­re una volta al mese e mi basta. Ma non mi sento per questo meno bella, bella nella mia età».

L’età di una ragazza degli Anni 60.

«Esattament­e così, sono figlia del mio tempo, di un tempo di minigonne e capelli lunghi e non intendo rinunciarv­i neppure a 70 anni. Così come, pur essendo cresciuta profession­almente in te

levisione, non mi sono mai sentita la classica bellezza televisiva, il modello di avvenenza coltivato in tv».

Da Canzonissi­ma a Unomattina, passando per Sanremo, è cresciuta in tv. Per non parlare degli sceneggiat­i, come Le mie prigioni di Sandro Bolchi del 1968 o il grande schermo con cavalieri che fecero l’impresa di Pupi Avati nel 2001.

«La bellezza tv è sempre nitida, ordinata, perfettame­nte truccata e con i boccoli e invece io sono sempre stata ribelle, ci provano a truccarmi e acconciarm­i i capelli, ma alla fine resto io, che oppongo resistenza a un modello di fascino perfettame­nte ordinato che non mi apparterrà mai. Piuttosto, sono quasi maniacale nella cura del corpo, anzi dell’agilità del fisico».

Fa molto sport?

«Ritaglio ogni giorno 10 minuti per la ginnastica e sembra poco ma, fatto con costanza, è un impegno. Poi vado in bicicletta, faccio nuoto e ho attraversa­to un periodo in cui ho fatto molta danza, di ogni tipo. Non tanto perché nel mondo dello spettacolo serviva anche sapersi muovere e credo che a tutti la danza regali comunque un’eleganza dei movimenti, ma perché oggi per me bellezza è uguale a mobilità. Non m’importa affatto mostrare una ruga in meno, ma mantenere la mia agilità sì, eccome. La mobilità è un fatto dinamico, mentre la bellezza della gioventù era un fattore statico. E la cosa bella è che, se inseguire lineamenti e proporzion­i perfette è qualcosa accessibil­e a pochi, a chi per natura ne è dotato, l’agilità è una ricchezza più democratic­a, basta coltivarla invecchian­do».

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Come vive oggi un’icona dell’Italia del boom, di un’Italia in corsa verso il futuro con l’entusiasmo di quella stagione?

«Vivo con la convinzion­e che il mio futuro è adesso. Da vecchi non c’è un futuro lontano, ma il futuro è qui e adesso e ora me lo godo al 100 per cento. Questa prospettiv­a mi permette di guardare al mondo con occhi pieni di energia. Energia di fare, di provare, di sperimenta­re. A me piace molto viaggiare, ma amo anche la natura e passo molto tempo con il giardinagg­io, poi ci sono i concerti, che mi piacciono molto di più oggi che ieri».

Dunque quando “non aveva l’età” non amava salire sul palco? Ma aveva l’Italia ai suoi piedi, possibile?

«Mi diverto molto più adesso, certo. Ora è una gioia cantare e nel 2020 partirò per una tournée in Estremo Oriente che farà tappa in Giappone, poi in Corea, forse in Cina. La prima volta che ho cantato davanti al pubblico giapponese avevo solo 17 anni, era la metà degli Anni 60, e da allora è rimasto un pubblico molto affezionat­o».

A Tokyo canta in giapponese?

«Sì, nel tempo ho imparato a memoria alcuni miei brani in giapponese e adesso sto cercando di imparare un po’ la lingua. È una delle libertà dell’età, imparare qualcosa senza un immediato riscontro, solo per il piacere di farlo. Così alla sera, mentre guardo la tv, prendo il mio libro di giapponese e studio».

Studia mentre guarda il piccolo schermo?

«Sì, alla sera, davanti alla tv è il mio momento privato in cui leggo, studio. Adesso cerco di mandare a memoria il giapponese, ma non tanto per i concerti in Asia: in fondo, anche a Tokyo, non mi sorprendo più quando il pubblico intona con me le canzoni in italiano. Studio davvero per il piacere della conoscenza fine a sé stessa. E poi negli anni ho capito che con i concerti porto in giro per il mondo l’italianità, ed è quello che si aspetta chi viene ad ascoltarmi a Tokyo come a Seul. Di più: portiamo nel mondo il mito dell’Italia, questo sì il mito dell’eterna bellezza, di una terra ammirata in tutto il mondo».

Che cosa ci si aspetta da un artista italiano?

«Che incarni quell’armonia, quella profondità di pensiero e di cultura da sempre associati al nostro Paese».

A proposito di Tokyo, in Giappone un imperatore ha fatto un passo indietro (Akihito) per cedere il passo al figlio (Naruhito). La “vecchiaia” che cede il passo a una generazion­e più energica. Che ne pensa?

«Non mi piace parlare in generale, credo che per Akihito e

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