Corriere della Sera - Sette

Daniele serve al bar e cerca di dimenticar­e

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Si presentò alle sei e trenta del mattino come al solito, e solo dopo avere tirato su la saracinesc­a insieme al proprietar­io lo raggiunse la domanda che aspettava: «Che hai fatto alla fronte?». Aveva risposto di essere scivolato come uno stupido nel bagno di casa, niente di che, solo un taglietto. Il proprietar­io del bar lo squadrò, Daniele non sapeva se fosse perché non gli credeva, o se invece stesse valutando quanto quel cerotto quadrato poteva dare fastidio ai clienti. Poi Daniele andò dietro il banco mentre si accendevan­o le luci e schiacciò il bottone sulla macchina per il caffè.

Nella sequenza di gesti ordinari che compiva si sforzava di non pensare. Non aveva dormito per niente. Non era la prima volta che gli capitava, e sebbene si consideras­se fortunato perché non era mai stato vittima di una vera aggression­e, era stato comunque abituato dall’adolescenz­a a non rispondere agli insulti, ad attraversa­re in silenzio le strade quando sentiva qualcosa, a non reagire, a strisciare contro i muri. Qualche volta, specie a scuola, si era preso uno spintone e un paio di schiaffi. Ma la sera prima, sul solito autobus che lo portava a casa, era stato diverso, forse perché era tardi, forse perché il mondo intorno a lui stava cambiando, forse perché adesso sembravano tutti quanti arrabbiati e ognuno pensava a sé. Infatti l’unico altro passeggero, un signore sui cinquant’anni, non aveva detto niente quando i quattro ragazzi avevano cominciato a prenderlo in giro. Daniele senza rispondere aveva pensato: che faccio se mi seguono? Che faccio se arrivano fin sotto casa? Frocetto, la signorina non risponde, è maleducata, questa qui è nervosa avrebbe bisogno di una bella ripassata, secondo me fa la sostenuta ma lo vuole. Perché stava succedendo? Perché lo avevano individuat­o subito? Era stato lo zaino troppo colorato?

Quando era arrivata la sua fermata, Daniele era sceso all’ultimo momento, sperando che i ragazzi non facessero in tempo a seguirlo. Ma quelli invece si erano alzati insieme e avevano fatto riaprire le porte e il conducente li aveva lasciati lì. Tutti e cinque nella strada solitaria che portava verso l’appartamen­to che Daniele divideva con

«CHE HAI FATTO ALLA FRONTE?». AVEVA RISPOSTO DI ESSERE SCIVOLATO COME UNO STUPIDO NEL BAGNO DI CASA, NIENTE DI CHE,

SOLO UN TAGLIETTO

due ragazze. Lo avevano seguito, lo avevano fermato, e lui ricordava di avere detto: «Vi prego lasciatemi stare, vi prego». Poi in fondo gli era andata bene. Lo avevano buttato a terra, certo, c’era stato qualche calcio in posti che si potevano facilmente nascondere, pancia, schiena gambe. C’erano stati gli insulti e gli era arrivato uno sputo sui capelli.

Poi mentre lui si copriva la testa con le mani, a terra, erano improvvisa­mente andati via. Non era successo niente, si era ripetuto tutta la notte. Non sarebbe finito sui giornali. Era stato fortunato. Mentre i primi clienti arrivavano, si accorse che ogni tanto le mani gli tremavano. Non avrebbe detto a nessuno quello che era successo. Non voleva essere patetico. Aveva quasi ventotto anni.

Caffè, succo d’arancia, spremuta di melograno, due caffè, un bicchiere d’acqua per favore grazie. Cercava anche di sorridere e quasi non tremava più, quando un’ora dopo si trovò di fronte Andrea. Non lo conosceva bene, ma abitava lì vicino e la mattina si fermava per un caffè prima di salire sul motorino e andare via. Di lui sapeva solo che lavorava in una produzione cinematogr­afica, che prendeva il caffè senza zucchero e che gli era piaciuto dal primo momento che lo aveva visto. Gli servì il caffè e Andrea lo fissò mentre gli chiedeva: «Che hai fatto alla fronte?». Daniele esitò un momento prima di offrirgli la storia della caduta nel bagno di casa, e forse per questo Andrea gli sorrise amaro e scosse la testa per dire che lui sapeva. Andrea era gay come lui, non se lo erano mai detti, ma il radar di entrambi aveva funzionato dal primo caffè. Andrea rimise giù la tazzina e fece per uscire, poi ritornò indietro mentre Daniele stava riempiendo la piccola lavastovig­lie. «Senti ti va se ci beviamo una birra quando hai finito? Così mi racconti. E poi io devo festeggiar­e perché mi avevano quasi licenziato e invece è andata bene. Mi citofoni e io scendo. È qui all’angolo». Daniele pensò: Chissà se sa che non sono così alto, e qui dietro il banco c’è una pedana di quindici centimetri. Chissà se questa cosa, se tante altre cose, saranno importanti per lui. Chissà chi è Andrea. Poi sorrise piano e annuì.

SI ACCORSE CHE OGNI TANTO LE MANI

GLI TREMAVANO. NON AVREBBE DETTO A NESSUNO CIÒ CHE ERA SUCCESSO. NON VOLEVA

ESSERE PATETICO

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