#TUTTIMASCHI QUALCHE IDEA PER CAMBIARE
Premetto che tutto farò in questo articolo tranne scagliare la fatidica prima pietra. Nel mio piccolo anch’io come organizzatore di eventi e direttore di festival ho finito per comporre dei “manel”, ovvero dei panel di discussione formati da soli uomini. Quindi mi muoverò alla ricerca di soluzioni. La polemica, del resto, sta lievitando a vista d’occhio e ormai sui social compaiono quasi giornalmente foto di uomini che in uno dei tanti convegni italiani discutono di questo o di quell’argomento senza che in mezzo a loro abbia potuto trovare posto anche solo una donna. L’hashtag è #tuttimaschi. C’è ormai anche una piccola letteratura di casi macroscopici che hanno conquistato, loro malgrado, l’onore della cronaca. Chi non ricorda la foto di un plotone di #tuttimaschi che taglia il nastro del Salone del Mobile di Milano 2019? E chi ha dimenticato la replica, anch’essa fotografica, delle donne del design organizzata dall’assessore milanese Cristina Tajani? Uno degli ultimi esempi riguarda un convegno politico-economico organizzato a Milano da “Liberi, oltre le illusioni” e la polemica è stata lanciata in rete questa volta da uno uomo, per di più presidente di Human Technopole, Marco Simoni. Su Twitter la sua sortita (critica) ha avuto successo, alla fine ne ha date e ne ha anche prese. «Questi eventi di tutti maschi tradiscono il modo in cui sono pensati e organizzati senza tener conto della reale presenza delle donne nel mondo delle competenze. In centri di innovazione come quello che dirigo ormai sono loro la maggioranza, è la rappresentazione pubblica a restare asimmetrica. Non si tratta quindi di regalare qualcosa alle donne ma di essere coerenti con la reale fotografia delle competenze». E scherzando, ma non troppo, aggiunge che i “manel” potrebbero essere oggetto di denuncia all’Antitrust «per distorsione della libera concorrenza».
IN TROPPI CONVEGNI E FESTIVAL I RELATORI SONO SOLO UOMINI. DA QUI IL NEOLOGISMO: NON "PANEL" DI DISCUSSIONE, MA "MANEL"
Chi critica i “manel” in sostanza si appoggia a due argomenti: il primo è che investendo della responsabilità e dell’onore di essere public speaker solo uomini si opera una rappresentazione per difetto, si rinuncia a priori a parlare alla metà del cielo. Ed è in fondo la tesi di Simoni. La seconda accusa è ancora più radicale e la sostiene, ad esempio, Silvia Zanella, esperta di risorse umane e prossima autrice del libro Il lavoro è femmina, secondo la quale si rinuncia anche all’innovazione dei contenuti. Perché ospitare il punto di vista femminile «non è solo aggiungere, ma arricchire l’evento in termini di una differente visione, spesso più creativa». Chiacchierando del tema viene fuori che l’occupazione del palco da parte degli uomini è qualcosa che avviene non solo nei festival ma è assai frequente anche in ambito privato, nelle cene per esempio. «Sarà un caso», dice Zanella, «ma finisce quasi sempre che i mariti parlano tra loro di Trump e della crisi siriana e le mogli di come stanno i rispettivi figli. E questo a prescindere dal ruolo effettivo che i primi e le seconde esercitano nella società».
Oltre a produrre l’hashtag di cui sopra, la rete si è sbizzarrita sull’argomento “manel” e si può facilmente trovare una sorta di quadrante degli alibi che gli organizzatori trovano per chiamare i soliti noti. Le donne non sono interessate a questa materia. È un campo dominato dai maschi. Le abbiamo invitate ma hanno avuto paura. Non possiamo adottare le quote rosa anche qui. Commenta Paola Bonomo, consigliera indipendente e business angel: «Gli eventi maggiormente elitari hanno l’abitudine di essere power-driven, guardano al titolo dello speaker, Ceo o ministro che sia. E non ideas-drive, ovvero che privilegino chi ha qualcosa di veramente nuovo da dire. Ma detto questo gli uomini che accettano un invito anche sapendo che non ci sono donne nel panel sbagliano, sarebbe bene che si informassero e chiedessero modifiche». La disuguaglianza dell’opinionismo è innanzitutto irrispettosa delle giovani donne, continua Bonomo, perché se una studiosa/ricercatrice/manager assiste a una conferenza di soli uomini facilmente si convincerà che in quella disciplina per lei non c’è posto, che anche se studia e lavora e produce per i successivi 20 anni non sarà la benvenuta sul palco. «Non è un bell’esempio».
Ma se le cose stanno così che si può fare per invertire la rotta? La proposta più convincente ed efficace è quella di creare liste femminili ad hoc. Si è iniziato con Women Speakers nel settembre 2017 e oggi questa buona pratica si sta diffondendo anche in Italia. È un accompagnamento agli organizzatori o se volete una robusta (e pedagogica) sottrazione di alibi. A organizzare le liste è #100Esperte, una banca dati lanciata dall’Osservatorio di Pavia insieme all’associazione Giulia e la Fondazione Bracco, che le ha addirittura specializzate per competenze Stem, economia e finanza, politica internazionale ma sullo stesso registro si muovono anche Inspiring Fifty edizione italiana e The Brussels Binder. Parola d’ordine: Cherchez la femme.
«VOI UOMINI SBAGLIATE QUANDO ACCETTATE UN INVITO ANCHE SAPENDO CHE NON CI SONO DONNE: DOVETE CHIEDERE MODIFICHE»