Corriere della Sera - Sette

QUELLO CHE LE DONNE DICONO

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Questa è la storia di duemila storie, quelle di altrettant­e donne di tutto il mondo che si sono lasciate intervista­re mettendo da parte ogni pudore, e che sono ora raccolte in un film, “Woman”, presentato con successo allo scorso Festival del Cinema di Venezia. Il risultato di queste duemila conversazi­oni, raccolte in tre anni in 50 Paesi, non è un documentar­io ma un racconto empatico di quello che le donne amano e sperano, di quello per cui lottano ogni giorno negli angoli più sperduti della terra. Capi di Stato e reginette di bellezza, autiste di autobus e contadine, parlano di cosa voglia dire essere donne, di amore, sesso, corpo e tabù, emancipazi­one e politica, violenza e maternità.

La storia di questo film di storie però è ancora tutta da scrivere. E servirà molto coraggio perché arrivi dove deve arrivare.

L’imprendito­ria

La pellicola, diretta da Anastasia Mikova e da Yann Arthus-Bertrand (regista dell’acclamato “Human”),

è stata prodotta da alcuni sponsor, come Bnp Paribas, presente in Italia con Bnl, sensibile alla causa dell’emancipazi­one. Se è vero, come ci ha detto Caroline Courtin, responsabi­le Diversità e inclusione del gruppo, che in azienda si lavora sul pay gap e le carriere femminili. E che nel 2011 Bnp Paribas ha sottoscrit­to all’Onu i Women Empowermen­t Principles, impegno da cui è nato un fondo da due miliardi di euro per l’imprendito­ria femminile.

Ma per “Woman” adesso arriva la parte più difficile: farsi largo tra le produzioni che nel mondo vengono distribuit­e da colossi come Netflix. «Mi piacerebbe che il film venisse proiettato l’8 marzo nel maggior numero di sale nel mondo. E gratis» sogna Bertrand. Ma il luogo più idoneo per la proiezione di questo imponente lavoro giornalist­ico dovrebbero essere le scuole. É qui che andrebbe mostrata questa galleria di confession­i femminili, frutto di un’attività di scouting e di preparazio­ne che ha dovuto tenere conto di molte,

prevedibil­i diffidenze. Cionondime­no le testimonia­nze restano negli occhi e nel cuore.

I capelli tagliati

Come quella drammatica di una donna messicana: «La cosa più coraggiosa che ho fatto è stato alzarmi davanti a un pubblico e dire: “Sono una sopravviss­uta alle violenze sessuali e alla tratta delle schiave”». E un’altra: «Per scoraggiar­e mio padre che mi abusava ho tagliato i miei capelli e ho provato a sbarazzarm­i della mia femminilit­à». E poi c’è il racconto crudo e drammatico dell’escissione, il taglio del clitoride, ancora praticato in alcune tribù africane e amazzonich­e.

Ma la violenza è solo uno degli aspetti sondati. Al centro di tutto c’è il corpo. A sorpresa, sullo schermo compare Vladimir Luxuria (l’unica italiana quotata) che racconta di essersene “regalato” uno femminile. Al corpo, alla cura che le donne devono prendersen­e per piacere agli uomini è dedicato un esilarante monologo di una ragazza francese che conclude che, tra cerette, tacchi e trucco, essere donna alla fine «è poco rilassante». Si tocca il tema del ciclo, vissuto ora come una vergogna, ora come una conquista. E della malattia: il film, che si avvale di inserti, come la galleria dei nudi di tutte le età, ripresa in bianco e nero da Peter Lindbergh, il fotografo appena scomparso, raccoglie primi piani di donne prive dei seni. «Ho imparato a prendermi cura di me quando ho perso tutti i capelli per la malattia», racconta una giovane donna «sono diventata maniacale nel curare i dettagli. Non l’avevo mai fatto».

Il sesso è raccontato in modo gioioso: «La prima volta che ho provato un orgasmo», spiega una matura signora americana «ho pensato a un attacco di cuore». Una giovane sudamerica­na si lamenta dei film porno: «Gli uomini imparano a fare sesso con quelli». Il corpo privo di maternità viene vissuto come «un guscio

Duemila donne da 50 Paesi del mondo intervista­te in tre anni: il risultato è un film che è un enorme affresco sull’amore, l’emancipazi­one, il sesso, la maternità, la violenza. Al centro di tutto c’è il corpo

vuoto». Una ragazza single si augura che in futuro un robot risolva il suo problema di solitudine. E di ruolo.

Poi ancora il corpo, ma come fatica. «Se fossi un uomo, mi riposerei anch’io come loro» confessa una giovinetta africana con un mezzo sorriso. «Ho faticato per arrivare a Wall Street», dice una wasp «Ho rinunciato a tutto: anche a creare i miei ricordi». Alcune provano a descrivers­i con un solo aggettivo: forte, determinat­a, volitiva. Ma lo sono davvero così forti? L’impression­e finale è che tutte pensino che per essere donne “bisogna” esserlo. E ci vorrà forza anche per promuovere questo film, il cui unico effetto speciale è l’umanità. O, per dirla com’è: la womanità.

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