Corriere della Sera - Sette

Un Paese che immaginiam­o (a torto) credulo e grossolano

- Di essere furbi i capi e i governanti, di fare cose belle e grandi. di rappresent­are questo popolo.

L’astuzia nazionale deriva da una lunga pratica di diffidenza, di inganni e di errori. Ma quando uno di noi diventa qualcuno vorrebbe restare sempre a galla e concede i diritti

come fossero benefici. Un atteggiame­nto che è anche fresca eredità della dittatura

Uno dei caratteri del nostro tempo,

e forse il dominante, è la furberia.

Crediamo di essere furbi noi, credono

chi sta sopra e chi sta sotto,

tutti. Il risultato è che nessuno crede all’altro né

nella vita né nella politica, coi risultati che tutti

vediamo quotidiana­mente. È uno dei miracoli

italiani, che la vita vada avanti, e anzi progredisc­a

e si risani con tanto spreco di furberia. Distinguer­ei

due specie di furbizia, quella del paese e

quella dei suoi capi. Il paese è furbo perché ha

una lunga pratica di diffidenza di inganni e di

errori. Lo è perché deve mangiare tutti i giorni

ed è abituato a procurarse­lo sfuggendo alle reti

che gli tendono i cacciatori, come certi sospettosi

uccelli che riescono a invecchiar­e nel bosco. Lo è

perché è vecchio e sarebbe decrepito se non fosse

vecchio d’esperienza e giovane fisicament­e, che è

il segreto italiano, il suo segreto biologico, il segreto

per cui un paese tanto rotto dall’esperienza

riesce a tenersi in piedi e vuole stare in piedi. Lo

è perché i politici si consumano e lui resta. Non

intendo fare la difesa del popolo come supremo

bene italiano. Se la nostra classe dirigente è così

litigiosa che ormai la guardiamo dalla finestra

come una categoria a parte, è in parte colpa nostra

che siamo diffidenti e non riusciamo a esprimere

una classe dirigente più sobria. Ma qui è da

spiegare il fenomeno per cui il popolo quando

pensa ai casi suoi, quando risolve i suoi problemi

quotidiani, quando è nella lotta per la sua vita, è

originale, sa quello che vuole, è ingegnoso e di

pronta risoluzion­e, e quando sale, diventa qualcuno,

prende posto dietro a un tavolo, comanda,

perde il senso della realtà. Forse perché perde

quello spirito collettivo, perché crede il mondo

chiuso in lui, vorrebbe stare alla finestra anche

lui non si vorrebbe sciupare, vorrebbe aspettare

e stare sempre a galla, vuole sia chiaro che è proprio

lui che apre la mano a concedere quelli che

sono i diritti umani e popolari, come se i diritti

fossero benefici. Questo è del vecchio machiavell­ismo:

questo è pure una fresca eredità della dittatura.

I diritti come concession­i, i doveri come

benignanze. È umano, ma quando non ci si vuole

sciupare, non ci si vuole compromett­ere, non si

vogliono assumere responsabi­lità, non si fa vita

pubblica.

Per non sciuparsi, molti nostri uomini rappresent­ativi si sono rovinati, screditati, sono stati fracassati dall’opinione pubblica, peggio che se fossero andati sotto un treno. Qualunque uomo, e tanto più un uomo rappresent­ativo,

si squalifica perché non si vuole compromett­ere,

cioè assumere la sua responsabi­lità. Rischiare di

commettere errori è anche il modo per rischiare

Cosi succede che un paese possa essere governato da gente che non ama: la quale si illude di avere più o meno grandi simpatie e solidariet­à dietro a sè, e quando arriva il momento e l’occasione di sentirsi veramente la voce del paese, si ritrova sola, abbandonat­a, se non proprio causa di furore e d’ira. Mi domando quali possano essere le ragioni di questa inaderenza. Una è forse che

l’ingegno italiano, realissimo, quando teorizza è

capace di astrazioni che gli fanno perdere il senso

del vero, appena si trova di fronte a teorie da

professare le professa come se fossero campate

in aria e non sulla pelle e sullo stomaco del paese.

Questo distacco fra teoria e realtà, fra cultura ed

esperienza, non è un male esclusivo dei professant­i

la politica: è anche un male di molta arte e

letteratur­a e pensiero italiani. È pure un carattere

della società italiana, perpetuame­nte in fuga verso

immaginari modelli, estranei, astratti, per cui

è lontana dal popolo che al suo modello storico

rimane fedele. Pericoloso modello, per chi pretende

Invece, si reputa il paese ingenuo, e non lo è;

lo immaginano grossolano, e questo è lontano

dal vero; lo immaginano credulo, ed esso fa molto

presto a sgannarsi; lo immaginano pronto a

tutte le avventure, e il paese teme le avventure;

pensano che esso preferisca la gallina di domani,

ed esso dalla mattina capisce il tempo; credono

che esso si nutra di parole, e le parole hanno per

lui un significat­o preciso: infine immaginano

che esso ami vedersi i suoi personaggi dominanti

tirare gli oroscopi, e invece vorrebbe vederli

il meno possibile perché ne ha visti troppi, e

anzi alla fine han lasciato il vento delle tempeste

in mano. Bisognereb­be ricordare che il paese,

quando arrivarono le truppe d’occupazion­e, fece

ad esse la più grande festa che mai paese abbia

fatto a occupatori: ma quando poi vide che la

vacanza si prolungava per settimane e per mesi,

si seccò, li ebbe a noia e li avrà a noia per molti

anni: perché è un esperto paese il quale, costretto

a vivere in un cronico disordine, ha un’esigenza

insopprimi­bile di ordine, al punto che a volte

ha preferito l’ordine dei cimiteri al disordine dei

medici che dovevano curarlo.

Se l’esperienza serva mai a qualcuno, sarebbe

bene ricordare questo fatto, e finirla di alimentare

le reazioni reazionari­e degl’Italiani.

 ??  ?? Diecimila contadini a Roma a un comizio di dirigenti comunisti nel 1947. Poi scatterà la protesta anti governo sulle terre confiscate ai fascisti non ridistribu­ite
Diecimila contadini a Roma a un comizio di dirigenti comunisti nel 1947. Poi scatterà la protesta anti governo sulle terre confiscate ai fascisti non ridistribu­ite
 ??  ?? Scrittore, poeta e giornalist­a, nato a San Luca (Reggio Calabria) nel 1895 e scomparso a Roma nel 1956, scrisse sul Corriere dal 1943 fino a pochi giorni prima di morire
Scrittore, poeta e giornalist­a, nato a San Luca (Reggio Calabria) nel 1895 e scomparso a Roma nel 1956, scrisse sul Corriere dal 1943 fino a pochi giorni prima di morire

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