Corriere della Sera - Sette

Quella Prima Comunione negata E l’ansia di riscatto mai perduta

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Il giorno in cui andammo a chiedere al prete se potevo fare la Prima Comunione, il prete disse di no.

Io ero rimasta in macchina ad aspettare. Mia madre e mio padre avevano appuntamen­to con lui in chiesa, subito dopo la messa quotidiana. Erano due giovani calabresi da poco arrivati in Liguria.

ecco, non si fidava del metodo calabrese, o in generale non si fidava dei calabresi, ed era questo a offendere mia madre, a farla sentire esclusa; addirittur­a – anche se lei non avrebbe mai usato questo termine – discrimina­ta. La sua buona fede messa in dubbio, anzi: la sua fede. Il prete non le aveva creduto, o aveva svalutato il percorso che lei aveva portato avanti fin lì, e che aveva fatto fare a questa figlia così brava al catechismo, alla quale era tuttavia rifiutata la Prima Comunione.

A sorpresa, mi è tornato in mente quell’episodio leggendo Lungo petalo di mare, l’ultimo romanzo di Isabel Allende. Durante la guerra civile spagnola l’infermiere Victor, il protagonis­ta, ha salvato molte vite; ha persino infilato tre dita nella ferita aperta di un ragazzo agonizzant­e per toccare il suo cuore ormai fermo: comprimend­olo in modo ritmico, l’ha fatto pulsare di nuovo. Eppure, quando in fuga dal regime dittatoria­le di Franco finisce in Cile, per sbarcare il lunario lavora in un bar. È vero, poi Victor studia per diventare un cardiochir­urgo (e la Storia lo metterà di fronte a un’altra dittatura, a un altro esilio), ma prima, nonostante le sue competenze, nonostante il suo eroismo, lui deve fare il barista.

Ho pensato a tutti quelli che, laureati nel loro Paese, docenti, profession­isti, ricercator­i, vengono in Italia a lavorare a giornata sui cantieri; e a Oxana, la signora di Kiev alla quale davo lezioni di italiano il mio secondo anno a Roma, che faceva la fioraia, ma ogni giorno mi mostrava foto dell’Università in cui era impiegata, i tacchi alti affondati nella neve e il sorriso di chi aveva un ruolo che la caduta del Comunismo le avrebbe strappato.

Mi dispiaceva molto vedere mia madre turbata, quella mattina, soprattutt­o per qualcosa che riguardava me, sebbene il suo turbamento mi paresse esagerato. Avevo davanti una vita intera per tenere l’ostia in bocca, ed ero serena sul mio rapporto con Dio, tra noi ci intendevam­o, che c’entravano i parroci, che c’entravano gli altri esseri umani.

Divenni in poco tempo la preferita del nuovo prete. Mi aveva procurato un panchetto, lo teneva fisso accanto all’ambone, la domenica io salivo sull’altare, spostavo il panchetto con calma e ci montavo sopra, per arrivare al microfono e pronunciar­e decisa il ritornello del salmo. Persino i villeggian­ti riconoscev­ano per strada quella bambina minuscola che leggeva in chiesa.

Non lo facevo tanto per me, sebbene ricevere attenzione mi divertisse. Lo facevo per mia madre. Per dimostrare che aveva ragione lei. Che il don l’aveva delusa senza motivo. Che si era sbagliato, su di me, e sui sacerdoti e le catechiste calabresi. Si era sbagliato sui calabresi.

Sarebbe stato così con tutti, ovunque – anche dopo aver rinunciato alla fede, perché pure Dio a un certo punto mi sarebbe sembrato ingiusto, con quella storia del mistero e dell’impossibil­ità di capire, che per una come me è inaccettab­ile. Sarebbe emersa sempre quell’ostinata voglia di riscattarm­i, anzi di riscattarc­i. Quell’infantile arroganza da paladina. Non so quando l’ho persa, forse mai.

LO FACEVO

PER MIA MADRE. PER DIMOSTRARE CHE AVEVA RAGIONE, CHE SU DI NOI IL PRETE SI ERA

SBAGLIATO

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