I RACCONTI MULTICOLORE DI SCERBANENCO
C’è la vecchia squillo malaticcia che deve spesso affrontare interventi chirurgici e che, sotto anestesia, racconta «storie scabrose con un cacciatore di leoni, una specie di Hemingway che si era appassionato a lei». C’è il piccolo balordo che scivola dentro una situazione quasi faustiana (il diavolo tentatore porta un impermeabile nero e liscio come la vestaglia di un magazziniere della Gondrand) sullo sfondo di una Milano pericolosa: «Erano a trecento metri dalla Stazione Nord ma sembrava di essere nella giungla colante umido, con belve dagli occhi fosforescenti, in agguato nel buio...». C’è il brillante dirigente industriale che ama teneramente moglie e figlio, ma ha la stessa vocazione di Don Giovanni («L’ispettore Raimundo, el mas veloce seduttor del mundo»).
Giorgio Scerbanenco è stato mille volte riscoperto. Mai abbastanza. In questo mondo di noiristi, lui è stato il fondatore e il maestro. Ma anche questo non basta. Scerbanenco non aveva limiti o definizioni. E lo dimostra Il Centodelitti, uscito per la prima volta nel 1970 (era morto nel 1969 a 58 anni). Artefice del libro fu l’amico e complice Oreste del Buono. Le cento storie (una più bella dell’altra) erano quasi tutte state scritte per riviste femminili.
I delitti del Centodelitti sono di ogni tipo, a volte solo pensati o desiderati. Più che a una raccolta di gialli alla
Ellery Queen, bisogna pensare a libri come I quarantanove racconti di Hemingway, Centuria di Manganelli, Gente di Dublino di Joyce (Il Centodelitti è anche un Dubliners alla milanese). Non sto esagerando. Scerbanenco scriveva di tutto (rosa, giallo, nero, come dice la figlia Cecilia, sua strenua e valorosa promotrice), ma in fondo a ogni sua storia c’è un discorso aspro, «reale e sudicio come un biglietto da mille vecchio». In Italia bisogna rifare il canone letterario: Scerbanenco è uno dei più grandi che abbiamo avuto. Ed è ancora vivo.