Corriere della Sera - Sette

LA LIBERTÀ CHE VORREMMO AVERE

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Ha senso parlare di libertà oggi? Credo di sì, perché è una parola che deve essere difesa, come ottant’anni fa, come sempre nella storia. La libertà non è per sempre e se non la si rinnova, se non la si reinventa ogni giorno, si corre il rischio di vederla sfumare, perdere di valore. Al tempo dei nostri padri combattere per la libertà significav­a battersi contro un nemico che aveva una divisa e dei vessilli chiari e inequivoci. Oggi non è più così: la battaglia per la libertà è più individual­e, non ci sono eserciti contrappos­ti, ma nemici interni, sottotracc­ia, spesso invisibili. Penso, ad esempio, alle tecnologie digitali, ai social network. Chi può davvero dirsi libero nella “Repubblica dei like”? Chi può sentirsi davvero libero se è diventato dipendente dalla messaggist­ica?

Basta prendere una metropolit­ana, entrare in un ristorante, salire su un treno, camminare per strada per incontrare migliaia di persone con il capo chino su un piccolo schermo: non riuscirebb­ero mai a fare un viaggio in un luogo senza segnale. È questa una forma di libertà? E se non lo è, quale baratto si è accettato? Si acconsente ad essere perennemen­te rintraccia­bili?

Eppure viviamo un’imbarazzan­te contraddiz­ione: non siamo mai stati così soli da quando possiamo comunicare così facilmente: si stanno affievolen­do i fondamenta­li delle nostre relazioni, che sono i nostri sensi, lo sguardo, il tatto, l’udito, il gusto, l’olfatto ovvero la percezione delle nostre emozioni. Le abbiamo perfino barattate con un’emoticon! Il nostro stare bene o male diventa un’ebete faccetta gialla con le labbra in su o un giù. Non siamo liberi di parlare all’epoca della grande comunicazi­one, perché è stato ucciso il tempo, ovvero la possibilit­à di dedicarci e dedicare parole e silenzi, sorrisi e paure.

SI STANNO AFFIEVOLEN­DO I FONDAMENTA­LI DELLE RELAZIONI. CHE SONO I NOSTRI SENSI. BARATTATI PER UN EMOTICON

Anche il pensiero sembra non essere in grande forma, oggigiorno. Sono quasi scomparsi i luoghi dove si forma. Ai miei tempi e dalle mie parti c’erano osterie, bar biliardo, circoli, piccoli teatri d’avanguardi­a. La television­e che ha avuto, oltre a quello dell’intratteni­mento, anche un ruolo educativo, ora si è pressoché trasformat­a in una gigantesca e furibonda messa in scena del peggio dell’umano e questo perché parolacce e insulti possono essere replicati all’infinito sui social network, mentre i ragionamen­ti no: stancano.

Ma se non si pensa, non si innova, non si crea, ci si ferma e basta. Il pensiero si forma e si alimenta anche con l’ascolto e la lettura, e se ci si riduce ad ascoltare soltanto un messaggino registrato e inviato via WhatsApp, e se si leggono soltanto le poche parole che possono essere contenute in un tweet, a che serviranno i racconti, i romanzi, le poesie? Da che mondo è mondo sono stati i tiranni e i malavitosi che hanno avuto bisogno di un popolo ignorante e prostrato, dunque ricattabil­e. Eppure né i despoti né i capibaston­e erano mai riusciti a raggiunger­e una popolazion­e così ampia come sono state capaci le tecnologie digitali.

Libertà significa potersi indignare, e credere di poter cambiare le cose che confliggon­o con il senso della propria morale. Ma indignarsi non significa offendere il pensiero altrui, quanto dispiegare il proprio. Quindi, se viene a mancare il pensiero individual­e, anche la libertà rischia di latitare o di essere trasformat­a in una parola svilita.

Molti giustament­e ritengono che la libertà sia legata al concetto di identità: più forte è, più il grado di autonomia si rafforza. Il problema è: che cosa significa oggi identità? Non poche persone tendono a confondere l’idea di identità con quella dell’appartenen­za a una determinat­a cultura, a un’area geografica, a una etnia, a una religione; ma tutto questo comporta il rischio di confinare gli individui in un’illusione terribile: quella di pensare di essere superiori ad altri. Una supponenza che conduce verso le forme di nazionalis­mo e di arroccamen­to culturale più retrive. Si è portati così a ritenere che l’identità non sia più il risultato di un’ibridazion­e culturale, ma una perversa selezione in cui si esclude tutto ciò che non provenient­e dall’orto di casa. Se così fosse nella storia dell’umanità non ci sarebbe stata nessuna forma d’arte o di musica o di cucina, ma anche nessuna innovazion­e tecnologic­a e scientific­a.

L’uomo è il prodotto dei suoi infiniti e irriducibi­li spostament­i, delle sue peregrinaz­ioni sul pianeta, della sua curiosità, dei suoi stessi innesti. Se tutto questo dovesse cessare o stemperars­i o diventare materia ostile che accresce i conflitti e le distruzion­i, anche la libertà non avrebbe più molto senso o diventereb­be uno slogan privo del significat­o di crescita e di salvezza che ha sempre avuto.

La libertà non è mai per sempre: per salvarla e difenderla — non solo quella di cui godiamo oggi, ma anche quella che vorremo avere — occorre che ciascuno ritrovi il coraggio di disobbedir­e ai tentativi di omologazio­ne di cui ognuno di noi è, in qualche modo, complice. Ritrovare la dignità di questa parola significa garantirci l’unico futuro possibile.

OCCORRE RITROVARE IL CORAGGIO DI DISOBBEDIR­E AI TENTATIVI DI OMOLOGAZIO­NE DI CUI OGNUNO È, IN QUALCHE MODO, COMPLICE

Paolo Crepet è psichiatra e saggista. Il suo ultimo libro è Libertà (Mondadori)

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