«LA GRAVIDANZA AL MASCHILE È UNA VERTIGINE: NON DEL CORPO, DELL’ANIMA»
Massimo Gramellini nel suo nuovo libro, racconta l’attesa del figlio Tommaso. Che lo ha costretto a fare i conti con i propri
genitori e la propria storia
C’è un padre che sta per nascere. Ha 58 anni, pesa 86.700 grammi, si chiama Massimo Gramellini e aspetta, insieme a suo figlio, una parte di sé che non immaginava.
Per ingannare l’attesa accende il computer e scrive. Volge il termine gravidanza al maschile perché è questo che sente: una vertigine nuova che non riguarderà il corpo, ma l’anima sì. Sa che ha nove mesi per fare ordine nel vocabolario e nei sentimenti, poi dovrà essere pronto. Intende interrogarlo a pieno, il desiderio di paternità ignorato per decenni e poi avvertito all’improvviso con «una presa di judo all’altezza dello stomaco. Un vuoto inatteso. Un richiamo irresistibile».
Prima che tu venga al mondo è una lettera a un tu di cui non si indovinano i lineamenti, ma che già si desidera. E se è vero, come scrive Gramellini nell’incipit, che «i desideri sono ricordi», diventare padre chiama in causa tutta la propria infanzia, il primo disco comperato mettendo via le paghette: The
Dark Side of the Moon, il biglietto di quella partita storica: Toro-Juve 3 a 2, le letture, gli insegnamenti, le frasi più preziose che hanno fatto di noi l’essenziale, che merita di essere consegnato, dentro un baule speciale, a chi non è nato per continuarci, ma si appoggerà a noi per trovare la sua strada.
Accade anche questo con un figlio: che si è chiamati a cambiare. Non solo abitudini, ore di veglia e di sonno, alimentazione, priorità, ritmi: ché questo, alla fine, è il meno. Ma il proprio racconto. E occorre cominciare per tempo, ben prima del parto e dei test di gravidanza. Sentire un giorno, forte e chiara, la necessità di diventare adulti.
Incontro Massimo Gramellini a Milano. Ci sediamo in un bar e poco dopo — è più forte di noi — ci mostriamo sul cellulare, inteneriti e orgogliosi, le foto dei nostri figli. Incameriamo leggerezza: sappiamo entrambi che questa è la parte facile, ma che ci troviamo qui per affrontare la difficile. Allontaniamo
i telefoni. Io gli chiedo: è davvero indispensabile, per diventare genitori, fare i conti con i propri?
«A nove anni», mi dice, «insieme a mia madre ho perso anche il femminile. Il mio modello d’amore era papà: freddo, distante. Crescendo, ho cercato donne simili a lui, a cui delegare il ruolo di responsabilità per potere rimanere figlio. Ho dovuto scrivere Fai bei sogni, dare un nome al dolore della perdita, attraversarlo e trasformarlo in opportunità, per uscirne. Allora mi sono concesso d’innamorarmi di una donna che assomiglia a mia madre e, grazie a lei, mi sono riappropriato di quel femminile che avevo rimosso. Sentendomi padre, finalmente, prima di diventarlo».
Questa donna è la scrittrice Simona Sparaco. Gramellini racconta, nella lettera al bambino che aspettano, la bellezza di appartenere di nuovo, «mezzo secolo dopo mia madre», a una famiglia. Che è «caotica e improbabile, ma viva» come lo sono spesso le famiglie allargate, libere di essere felici a
modo loro. Gramellini lo è mentre gioca in combutta con Diego, 6 anni, figlio di lei, e di lui socio alla pari nella squadra degli Insopportabili; mentre si sorprende a non dover rinunciare, come temeva, a nulla d’importante per la paternità.
«Da zero mi sono ritrovato con due figli e due ruoli diversi. Sono il padre di Tommaso e il migliore amico di Diego. Nel giro di un anno, il 2015, ho messo a soqquadro tutte le certezze e le comodità in cui mi ero adagiato, sia nel privato che sul lavoro: ho cambiato giornale dopo 28 anni, accettato di condurre una trasmissione mia, sono uscito dall’infantilismo».
La bambinitudine, invece, nel libro la difendi gelosamente.
«Perché è la capacità non di restare, ma di tornare bambini. Di provare meraviglia. Per riuscirci occorre prima diventare adulti, altrimenti si è solo infantili. James Hillman afferma che i figli non scappano dai problemi della famiglia, ma dall’assenza di stimoli. Bisogna saper dare confini per permettere loro di sconfinare, regole per farle trasgredire. Essere padre significa, prima di tutto, assumersi responsabilità. Un passaggio che vale per tutti: uomini e donne, per chi ha e non ha bambini, per i politici. Non puoi fare il padre con i sondaggi. Devi trovare il coraggio di prendere decisioni impopolari. Mio padre fu molto duro, apparteneva a una generazione che non poteva altrimenti. Eppure, adesso che non c’è più, mi sembra un eroe».
Prima che tu venga al mondo è, anche, un doppio dialogo con l’altrove: con Tommaso che nascerà, e con il padre che se n’è andato. Intorno c’è un intero coro maschile che si confida e si confronta. Risuonano la voce viva dell’amico Norberto, campione di cinismo, secondo cui «questo pianeta ci ha già sopportato abbastanza» e sarebbe meglio estinguerci; e quella di Diego che, all’inizio delle elementari, è già un brillante psicoterapeuta. Ci sono gli altri padri che Gramellini ha incontrato nelle pagine di cronaca e non hanno mai smesso di parlargli. Però sono anzitutto i non detti con il suo, di padre, a intrecciare una trama carsica e necessaria. È il loro recupero, almeno nella scrittura, il gesto non più rimandabile.
«Ripenso a distanza di anni» mi racconta «cosa può aver significato trovarsi a gestire una situazione del genere: perdere la moglie, crescere un bambino da solo. Non leggeva mai romanzi, esclusivamente saggi. Ne aveva più di cento su Napoleone, la sua fissa. Così a vent’anni gli regalai Guerra e pace. E lui, dopo poche pagine, ebbe subito da ridire: “Il tuo Tolstoj – lo chiamò così – è molto impreciso. La casa di Napoleone non era qui, ma là!”. È sempre stato rigido, esigente. Ora capisco: quanto fosse difficile anche per lui. Ero l’unico della classe a essere rimasto orfano di madre. D’estate andavano tutti in vacanza con la mamma, e io con lui. Eravamo una coppia strana. Se gli si avvicinava una donna, diventavo geloso. Ero arrabbiato con la vita». Cosa ti ha aiutato a liberarti da questa rabbia?
«La lettura, che è l’unico modo per allenare il muscolo dell’immaginazione».
Gramellini dedica all’importanza della scuola, di leggere e utilizzare le parole per spiccare il proprio volo, pagine che sento profondamente mie. È passato di moda affermare che leggere è pericoloso, che studiare significa costruire il proprio riscatto. Eppure Gramellini avverte Tommaso prima ancora che nasca: «Qualcuno ti dirà che la scuola serve solo se riesce a trovarti un lavoro. Non credergli. La scuola serve se riesce a fornirti gli strumenti
«Mio padre è sempre stato rigido. Ora capisco quanto fosse difficile per lui. Ero l’unico della classe orfano di madre. Eravamo una strana
coppia: se gli si avvicinava una donna, diventavo geloso»
per gestire un sentimento, smascherare un ciarlatano e ammirare un tramonto, non solo una vetrina».
Ti preoccupa che tuo figlio cresca nel pieno di una rivoluzione tecnologica che pochi sembrano in grado di governare?
«Siamo bombardati dalle immagini che uccidono l’immaginazione, diventati schiavi del narcisismo, dell’idea che solo i numeri contino. Ma non sono allarmato: la tecnologia mostra piaghe, come il bullismo, che ci sono sempre state. Le amplifica, ma le denuncia anche. Mi preoccupa di più l’invecchiamento drastico della nostra società, il suo torcicollo emotivo, la chiusura, la paura di tutto quel che suona inedito».
Anche per questa ragione non si
fanno più figli?
«Un figlio è il nuovo che irrompe. Metterlo al mondo significa voler vedere cosa può riservarti la vita, lasciarsi sorprendere».
Difendi due concetti, in questo libro, che appaiono quasi dimenticati: la meraviglia e l’utopia. Come riappropriarsene in un tempo di materialismo assoluto che, almeno a mio avviso, non rende felice nessuno?
«Questa è un’epoca che concede troppo alle emozioni e poco ai sentimenti. Le emozioni sono brevi, superficiali e danno dipendenza: ne devi provare sempre di più, fino a perdere il senso di quello che stai vivendo. I sentimenti, invece, implicano una connessione profonda con gli altri. Sono lenti, arrivano in profondità. Ecco, l’essere padre è un sentimento, non un’emozione». E sono più liberi i padri di oggi di vivere questo sentimento?
«Siamo liberi d’intenerirci, di esprimerci in un linguaggio pregrammaticale che un tempo era territorio esclusivo delle madri. Ricordo la prima volta che, preso da un afflato incontenibile d’amore, ho baciato Tommaso sulle labbra. È stata anche la prima volta che ho baciato così un altro maschio. Mi ha fatto effetto. Mi sono meravigliato. Poi, certo, restano differenze e disparità tra padri e madri. Penso ai sensi di colpa che prova Simona ogni volta che deve lasciare Tommaso ad altri. Lei si chiede: gli mancherò? Mentre io, quando viaggio per lavoro, egoisticamente penso solo che Tommaso mancherà a me».
Invidio a Gramellini e a tutti i padri la libertà da quel senso d’inadeguatezza che noi donne ci portiamo dietro dalla notte dei tempi e dobbiamo continuamente sorvegliare, ridimensionare, combattere. Fa parte di un lungo percorso verso una parità concreta che è ancora lontana, ma a cui Gramellini partecipa con energia perché riguarda il benessere della società intera, non delle donne soltanto. Nella prima parte del libro, gli ricordo, prima di conoscerne il sesso, speravi che fosse una femmina: il passaggio dal figlio ideale all’amore per quello reale è un primo momento di emancipazione dall’infantilismo? «Alla fine sono contento che sia maschio. Di femmine in gamba ce ne sono parecchie, ma lo stesso non si può dire dell’altro sesso. Farò di tutto per insegnare a Tommaso a perdere, ad accettare la sconfitta, la separazione, a non diventare uno stalker, a non pretendere di possedere gli altri».
Anche i figli non ci appartengono.
«Come scrive ancora Hillman, ciascuno di noi ha un daimon che lo divora, che deve esprimere e realizzare, e che il genitore non solo
descrivono soltanto: creano. È un’esigenza profondamente radicata negli uomini quella della creazione e del racconto, fin dalle più remote origini. Non si tratta del resto di rallegrare o intrattenere, e neppure di emozionare soltanto. L’«inganno» delle parole è un modo per costruire un rapporto con una realtà che è sempre altro da noi – e ancora di più un modo per conoscerci meglio. Arricchendo il nostro universo, arricchiamo la nostra conoscenza di noi stessi, la nostra cultura, in una parola il nostro essere trasparenti a noi stessi, la nostra capacità di darci le ragioni del nostro essere. È nelle parole, e solo grazie a esse, che possiamo comprenderci per quello che siamo, e in questo sta la potenza della creazione artistica con le sue invenzioni e i suoi inganni. Senza, la realtà vera risulterebbe vuota. Se non fossimo capaci di costruire questi mondi immaginari non potremmo comprendere il mondo reale in cui crediamo di vivere.
È paradossale, ma è così: c’è più realtà nelle (dis)avventure amorose di Anna Karenina che in tante descrizioni scientifiche sulle passioni, e i tentativi di scalata sociale di Julien Sorel spiegano che cos’è l’ambizione più di tanti trattati di sociologia. Anche per questo Gorgia, sempre lui, aveva poi anche composto un piccolo testo, un gioco lo chiamava lui (ma di quelli seri), per difendere la traditrice per eccellenza, Elena, la più bella di tutte, e la più fragile. Meglio guardarsi dentro bene, prima di giudicare gli altri.
Meglio insomma essere pronti a farsi ingannare, in certi casi. Perché sarà anche un inganno la letteratura, ma è «un inganno per il quale chi inganna agisce meglio di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato».