ILLAUME MUSSO
Che comincia con una scena terribile.
«Arthur, il protagonista, si ricorda di quando aveva cinque anni e il padre Frank gli dice di lanciarsi dal letto a castello: ”Buttati, ti prendo al volo!”. Solo che all’ultimo momento il padre si scansa e fa crollare il bambino a terra: ”Così imparerai che nella vita non devi fidarti di nessuno, neanche di tuo padre!”». Una ventina di anni dopo Frank porta il figlio Arthur a trascorrere una giornata al faro, e qui c’è la chiave di ingresso nel romanzo.
«Frank è malato di cancro, sa che presto morirà, vuole lasciare il ”faro dei 24 venti” in eredità ad Arthur ma a due condizioni: non venderlo mai, e non aprire, per nessun motivo, la porta della cantina».
E quindi Arthur resiste pochi minuti prima di aprire la porta della cantina.
«Naturalmente. È una specie di trappola, l’ennesima, tesa dal padre. Arthur ci casca, e diventa vittima della maledizione: per 24 anni vivrà solo per un giorno all’anno, scomparendo per gli altri 364».
Perché questa fascinazione per il soprannaturale, sempre presente nei suoi romanzi?
«Tvetan Todorov diceva che il soprannaturale è quel momento in cui il protagonista si trova a dover scegliere tra una spiegazione razionale e un’altra irrazionale delle cose, un’esitazione che io trovo molto interessante. Molto spesso quel che appare soprannaturale poi non lo è, ma comunque quell’atmosfera permette di parlare in modo ludico di cose molte gravi».
È il meccanismo delle favole.
«Sì, è così. Per questo stesso motivo adoro i film di Frank Capra, o Il fantasma e la signora Muir di Joseph L. Mankiewicz, o i romanzi di Stephen King, che aleggiano in questa storia ambientata nei suoi luoghi».
Com’è andata poi la sua vacanza nel faro?
«Benissimo, era un posto stupendo. Ma così isolato che la sera quando si alzava il vento sentivamo il rumore fortissimo di folate che arrivavano da direzioni opposte, da cui il nome che ho voluto dargli di ”Faro dei 24 venti”».
Nel romanzo ci sono le figure di Sullivan, Frank e Arthur: nonno, padre e figlio.
«Mi piaceva immaginare come si comportano tre figure di genitori che appartengono a epoche diverse. Quelli che appartengono alla mia generazione sono padri molto dedicati ai loro figli, che cambiano pannolini, preparano da mangiare, si preoccupano del loro benessere. Mi domando quanto questo dipenda dalle scelte individuali o dall’influenza
Lo scrittore francese torna con un romanzo nato durante una vacanza in un faro a Cape Cod, completamente isolato. «Ho messo in scena genitori che appartengono a tre generazioni diverse: mi domando quanto i loro comportamenti dipendano
dalle scelte individuali e quanto dall’influenza della società»
della società. Io mi godo tantissimo i miei due figli, ma certe volte mi chiedo se sarei stato lo stesso qualche decennio fa, quando il padre era fondamentalmente quello che stava poco a casa perché doveva lavorare ed era chiamato a incutere ai figli timore reverenziale, più che altro».
Un’altra protagonista del romanzo è New York.
«Si prestava bene all’espediente di farne lo sfondo di un giorno di vita all’anno, per vedere come una città può cambiare in 24 anni, dall’elezioni di Clinton all’11 settembre e così via».
E c’è il desiderio di riappropriarsi del tempo.
«Credo che sia un tema mai così attuale. Con le nostre vite così frammentate e sospese, con l’attenzione così breve e perennemente catturata dagli smartphone, se sapessimo di avere a disposizione solo un giorno all’anno forse lo vivremmo in modo più intenso».