SEMBRA UN HOTEL LA CASA DI RIPOSO DEGLI ARTISTI
tratto di una strada votata all’arte. E un pianoforte male accordato si sopporta meno di un dolore all’anca.
E se non fosse per lo sciamare discreto degli ospiti (36 in tutto), attraversando l’atrio tutto marmi e decorazioni primo ‘900, parrebbe di essere in un museo: busti di attrici, foto delle dive del muto, abiti di scena, parrucche. «In realtà, nelle intenzioni dell’impresario Adolfo Re Riccardi che ideò il progetto pubblico,
poi inaugurato nel 1931, questo istituto dovrebbe ricordare un albergo», dice l’archivista, Alberto Beltramo. «Gli attori trascorrono la maggior parte della vita negli hotel». Ma sono le migliaia di cimeli che negli anni si sono depositati nelle stanze che oggi fanno sembrare questo posto un sacrario della finzione, una cattedrale del teatro. «È anche per questo che ci sentiamo a casa», afferma Zelio Zotti, 86 anni, tenore. «Noi abbiamo più dimestichezza con
un baule che non con una famiglia».
La carriera e la famiglia
Già, i figli degli artisti: sempre in viaggio oppure affidati alle nutrici. Questo posto nacque anche per alleviare le vecchiaie in solitudine di chi sceglie la vita randagia delle scene. «Per la verità oggi abbiamo una lista d’attesa in cui si iscrivono anche i sessantenni» afferma la direttrice, Silvia Bertolini. «Sa com’è, la precarietà di un mestiere che cambia da un anno all’altro». Per gli artisti con reddito e per gli ospiti non provenienti dallo spettacolo (da un po’ le porte sono aperte anche a questi) le tariffe sono le stesse. Per gli artisti che non hanno nulla, be’, servizi gratuiti e retta calmierata. In qualche modo si fa.
Fatalismo, anche qui, come in una «prima» tra velluti rossi e luci fumose. Tutto ha qualcosa di fatale nella villa, a cominciare dal busto che ricorda la donna da cui la casa di riposo prende il nome: Lyda Borelli, emancipata e moderna, l’attrice più famosa del cinema e del teatro italiano fino al 1918, quando finì la guerra e finì anche quella carriera stellare. Lyda sposò il conte Vittorio Cini, si ritirò dalle scene e si dice che il marito, gelosissimo, ordinò di distruggere quasi tutte le sue pellicole. Però poi, sessant’anni fa, l’industriale ferrarese donò cento milioni per costruire questo istituto intitolato alla diva. Dove Lyda, proprio come in uno dei suoi film, si prende una tardiva rivincita e qui oggi è dappertutto: busti, foto, costumi, vecchie lettere. I suoi biglietti sono esposti accanto a quelli dalla grafia allungata e reclinata di Francesca Bertini, mentre i contratti firmati dalla compagnia di Eleonora Duse sono asciutti, secchi. «Da anni arrivano donazioni di ogni tipo», racconta Anna Majani, la presidente. «E alla costruzione del Teatro delle
Celebrazioni, qui accanto, hanno contribuito personalità come Elisabetta d’Inghilterra e John Kennedy». Peccato che la compagnia teatrale con gli ospiti, attori ora in pensione, non sia mai nata: non è stato raggiunto un accordo su chi...dovesse fare la parte del “giovane”.
Quel no a Fellini
Non stupisca questa civetteria: è naturale in coloro che hanno dedicato una vita alle maschere, ingiungendo al proprio corpo di diventare ora diciottenne ora ottantenne. Se chiedi a Gianna Serra, rossetto e foulard colorato (ma età top secret) qual è stato il film più bello che ha fatto, lei non ci pensa due volte: «Il prossimo!». Serra cammina, si siede, beve il caffè come se fosse ancora in una villa hollywoodiana degli anni Sessanta. «Avevo diciotto anni e non ero male. A Roma, a casa del principe Borghese, conobbi un uomo che il giorno dopo inondò di rose la mia stanza d’albergo. Era il re di Hollywood e mi portò in America. Lì frequentai la casa di Frank (Sinatra, ndr), ricevetti una proposta di matrimonio da James (Coburn, ndr) e a Beverly Hills dividevo l’estetista con Barbra Streisand». Un unico rimpianto: «Mi sono pentita di aver detto di no a Fellini:
che mi voleva nei panni della Gradisca di Amarcord».
Tutto, in queste persone, è vivo, guizzante, come in uno spettacolo mai interrotto, senza il sipario e il “the end”. Perché mentre Serra continua a raccontare sfogliando vecchie riviste che la ritraggono bellissima e coperta solo di veli, dall’altra stanza arriva un vocione che si impone nel pomeriggio sonnacchioso dell’autunno. «È Zelio Zotti, canta», annuncia Beltramo. Nella vita ha fatto sempre e solo quello: ha cantato. A Bologna, a Tokyo, a Roma, a Parigi. «Non riesco a stare senza», dice. «Ogni giorno mi alleno e, stia a senti
re, Aveee Mariiiiaaa». Il tenore si alza in piedi e la voce fa tremare la parete ricoperta di foto di Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Per fortuna, il prossimo è un musicista («ma suona la tromba», avverte Beltramo).
Una sottile, profonda verità Alberto Mantovani è nato nel 1932 a Mirandola e ha cominciato a suonare nell’immediato Dopoguerra. «Pochi soldi, tanti sacrifici, tanto rigore». Il successo è arrivato a metà anni Cinquanta: tournée in Medio Oriente, Egitto, Libano, Siria, Iran, Iraq. Poi il “posto fisso”: nel ‘57 vince il concorso per la prima tromba nell’orchestra del Teatro Comunale
di Bologna. «Abbado e Muti mi hanno chiamato più volte a sostituire la prima tromba del Teatro alla Scala di Milano», racconta, «e il grande Celibidache una volta mi chiamò all’ultimo momento per chiedermi di suonare con lui alla Filarmonica di Monaco».
Oggi per Mantovani non è come per Zotti, il quale usa la voce, un po’ stropicciata ma ancora elastica: le mani veloci per suonare la tromba sono un ricordo che il musicista sublima con l’ascolto. «Non posso fare a meno di ascoltare tutti i giorni i classici», dice mostrando parte della sua collezione di dischi. Non è un passatempo, è la vita.
E ognuno vive come può, lontano dalle scene o dai teatri o dalle grandi orchestre. C’è chi si ostina a non lasciare mai la propria stanza, incapace di vestire una quotidianità senza prove massacranti, registi tiranni o notti in bianco. C’è chi esce in segreto, va nella farmacia del quartiere e ordina presentandosi come la Duchessa di Amalfi, uno dei tanti personaggi che le è capitato di interpretare una vita fa. E in fondo queste persone non sono soltanto Alberto, Gianna, Zelio e tutti gli altri: sono anche tante Lulù, Andrea Chenier, Gianni Schicchi. Una sottile, profonda verità: lo spettacolo va avanti.