L’UE RESTA UNA MEZZOSANGUE. I 27 STATI CHE, TOLTO IL REGNO UNITO, FORMANO L’UNIONE SONO SEMPLICEMENTE TROPPI E TROPPO DISOMOGENEI PER POTER DARE VITA AGLI STATI UNITI D’EUROPA
porzioni mai viste, tormentando la mente dei cittadini in spregio alla effettiva realtà politica.
L’Ue resta comunque una mezzosangue, il prodotto di un equilibrio tra, da un lato, la sovranità nazionale su difesa, politiche estere e tassazione, e dall’altro i poteri sovranazionali che regolano le politiche monetarie e sulla concorrenza dei 19 membri dell’eurozona. Il Trattato di Maastricht, in seguito liquidato come abominio, incarnava questo compromesso che rimane valido anche oggi. I 27 Stati che, tolto il Regno Unito, formano l’Unione europea sono semplicemente troppi e troppo disomogenei per poter dare vita agli Stati Uniti d’Europa. Tuttavia, i Tory e tutti i loro primi ministri dalla Thatcher a Cameron hanno deliberatamente ignorato la realtà dei fatti, portando avanti una lettura errata della posizione tedesca, in particolare della cancelliera Angela Merkel, e dell’entusiasmo teutonico per la cosiddetta «unione politica».
In più occasioni i Brits hanno dato per scontato o che Frau Merkel fosse pronta a fare un grande passo avanti verso l’integrazione, o che fosse disponibile ad aiutarli a uscire dalla brutta situazione in cui si erano cacciati con le loro mani. Invece, l’atteggiamento tipico di Merkel anche all’apice della sua influenza è stata quella di mantenersi aperte varie strade e di difendere i propri interessi nazionali.
Diverse voci interne all’Europa che ho intervistato per questo articolo concordano sul leggere il vertice di Bruxelles del dicembre 2011 come un momento di svolta per la diplomazia britannica. Erano in corso le schermaglie francotedesche sull’accordo in merito al fiscal compact per rinforzare l’eurozona dopo la crisi finanziaria globale, e di primo mattino Cameron presentò inaspettatamente alcune richieste volte alla tutela della City, minacciando di porre il veto in caso di rigetto. Seguì lo sdegno dei leader europei, che videro l’azione come una mossa di politica interna per
tenere buoni gli euroscettici in merito a un tema particolarmente caro ai membri dell’eurozona. Perciò, molto semplicemente, ignorarono le istanze di Cameron e misero in cassaforte un accordo stretto tra di loro, al di fuori dei trattati Ue. Il bluff inglese era scoperto. Il sabato seguente ho incrociato Cameron nella tenuta del Castello di Windsor alla festa per i 75 anni di un amico comune: visibilmente affranto, il primo ministro mi accolse con un «Non bastonarmi».
Da lì in poi, tutto è precipitato: il Partito conservatore alla mercé di Nigel Farage, il referendum di Cameron sulla Brexit messo insieme in qualche modo, il governo disastroso di una Theresa May umiliata in casa e in trasferta, e la spietata lotta intestina dei Tory.
L’ascendente britannico si è volatilizzato così rapidamente da lasciare di stucco anche i più arcigni dare alcun contributo al dibattito.
Quando Johnson è assurto alle alte cariche coronando le ambizioni di una vita, molti in Europa sono rimasti con il fiato sospeso ricordando le sue sparate xenofobe, in particolare quella che paragonava l’allora presidente francese Hollande a un gendarme nazista di Colditz intento a infliggere «punizioni corporali» a chi chiedesse il divorzio dall’Europa. L’etichetta che più si addice al neo-primo ministro è ovviamente quella di un «malin»: subdolo o astuto, in francese. E pur non godendo di particolare fiducia, riscuote tanto apprezzamento, potendo fare leva su un carisma che stempera il piglio imperioso di Emmanuel Macron.
Poco convincente anche la strategia del premier inglese di mettere all’angolo i Tory contrari all’uscita dall’Europa e gli «spartani» euroscettici per costringerli a sostenere sua figlia che canta l’inno europeo, l’Inno alla gioia di Beethoven. Un funzionario non eccessivamente rapito lo ha definito «un bel momento».
Tutto questo, però, servirà a ben poco se Johnson non riuscirà a far passare l’accordo alla Camera dei Comuni, e ad ancor meno se non sarà in grado di costruire una nuova relazione con quell’Europa che tutela l’economia d’oltremanica, visto che il 44% degli scambi del Regno Unito sono realizzati con il continente.
Il vero nocciolo della questione sarà trovare il modo di riconciliare l’intransigenza europea con la visione johnsoniana di una nuova Inghilterra globale oltre la frontiera del mercato unico e dell’unione doganale. Il piccolo drappello di grandi diplomatici e alti funzionari che ho approcciato a Bruxelles concordava su un aspetto:
CON IL PARTITO ALLA MERCÉ DI FARAGE, IL REFERENDUM IMPROVVISATO DI CAMERON E IL GOVERNO DISASTROSO DI MAY
LA LOTTA INTESTINA TRA I CONSERVATORI SI È FATTA FEROCE
sitoria per gli attuali accordi tra UK e Ue. Per i funzionari europei è tutto un suo viaggio mentale.
Stando alle loro previsioni, Johnson può sperare al massimo in un accordo che riduca all’osso il libero scambio, azzerando sia i dazi che le quote e istituendo unicamente controlli alle frontiere, cosa che precluderebbe la possibilità di salvare quel mercato senza attriti tanto disperatamente invocato dalle aziende con sede nel Regno Unito.
Non si preannunciano rose e fiori: nemmeno nazioni anglofile come Germania, Paesi Bassi e Svezia riescono a tenere i nervi saldi alla prospettiva di una «Singapore sul Tamigi» che annacqui la regolamentazione comunitaria e lasci briglia sciolta alla concorrenza più selvaggia. «Il Regno Unito è troppo grande e troppo vicino al continente», sottolinea un negoziatore, «questa loro sfida potrebbe andare ha di fronte a sé scelte difficili, dato che una deregolamentazione di ispirazione singaporiana potrebbe allettare, nelle contee a maggioranza tory, un’ala della coalizione a favore della Brexit, ma sarebbe accolta meno positivamente nelle regioni economicamente più vulnerabili.
Questo significa che Londra opterà per imitare la Norvegia? In questo caso vedremo un saldo attaccamento all’Europa e un’adesione ai regolamenti e agli standard europei, con buona pace dell’indipendenza delle politiche commerciali. Oppure il Paese diventerà un amichetto degli Stati Uniti nella speranza che il prossimo inquilino della Casa Bianca sia più affidabile?
Per quanto riguarda invece gli affari interni, la Brexit continua a ridisegnare la situazione. L’accordo di Johnson crea un confine nel Mare d’Irlanda che di fatto informazioni, e dopo uno scambio di 10 minuti si è fatta l’ora di passare alle questioni internazionali che ci attendono dopo la Brexit. «Governare significa operare delle scelte: che strada sceglierà?»
La sua risposta: «Non è una decisione da bianco o nero». Certo, perché lui cerca sempre le cose su misura. Allora il Regno Unito potrà dare man forte all’Europa sulla politica estera, come la questione iraniana, poi reinventarsi da novella Singapore e spingere il settore farmaceutico, per finire con una bella serie di accordi commerciali personalizzati con l’America e l’Europa. Alla fine ognuno dei due resta della propria idea, in un pacifico disaccordo.
Questa politica del «su misura personalizzato» non sarà approvata, sicuramente non passerà il vaglio di un esame di dettaglio. La Brexit è probabilmente il divorzio
IL GIORNO DELL’ULTIMA INTESA, RICEVO UNA CHIAMATA AL CELLULARE. DALL’ALTRA PARTE C’È JOHNSON. MI CHIEDE SE
HO «QUALCHE ISTANTE» PER PARLARE DEL SUO ACCORDO...