Corriere della Sera - Sette

DA POSILLIPO A STANFORD PER EDUCARE I ROBOT

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Silvio Savarese, laureatosi a Napoli, si è specializz­ato in computer vision a Pasadena, dove ha conosciuto e sposato la scienziata cinese Fei fei Li. Poi, nel Bill Gates Building, ha ideato JackRabbot, che interagisc­e con gli umani ma lui non li disturba se vede che stanno parlando tra loro...

«Be’, sì, sono di famiglia. Papà era ingegnere alla Texas Instrument­s, zio ingegnere aerospazia­le a Pomigliano. Nonno, però, faceva il sarto». Lui, il computer scientist Silvio Savarese, aveva invece l’idea fissa dei robot. Così, dopo la laurea all’università Federico II di Napoli, è passato dalla collina di Posillipo alla California. Prima al Caltech di Pasadena dove si è specializz­ato in computer vision sotto la guida di un docente italiano, Pietro Perona, e dove ha conosciuto la moglie, la scienziata cinese Fei fei Li che, dopo aver guidato l’area cloud di Google, ora dirige lo HAI, il centro per l’umanizzazi­one dell’intelligen­za artificial­e di Stanford.

Anche Savarese, dopo qualche anno di insegnamen­to alla University of Michigan e dopo aver diretto i laboratori california­ni della Toyota per lo sviluppo dell’auto a guida autonoma, è approdato a Stanford, la cattedrale del sapere tecnologic­o della Silicon Valley. Qui ha alternato insegnamen­to e imprendito­ria: ora è in aspettativ­a perché sta lanciando una start up di computer vision applicata al commercio. Ma è sempre di casa a Stanford, tra i suoi robot. Nel suo ufficio del Bill Gates Building, il centro di computer science, mi mostra JackRabbot, il robot “gentile” costruito dal suo team: è già una macchina di seconda generazion­e, zeppa di

scorazza per i vialetti di Stanford, sempre a debita distanza dagli umani. Prova a interagire, ma evita di interferir­e quando due persone stanno parlando. Un robot “gentile”, insomma, al quale il team di Savarese insegna le regole sociali per inserire la macchina nella comunità senza traumi.

«L’auto senza pilota», mi spiega Savarese, «è una rivoluzion­e, ma ci vorrà tempo. Funziona al 95 per cento: non puoi metterla in strada se non hai prima risolto tutto. Rischi incidenti gravi. Vedremo prima questi robot empatici girare sui marciapied­i per fare consegne», dice lo scienziato. «Per questo, con la computer vision al posto dell’occhio umano, qui cerchiamo di dare al robot la capacità di interagire con l’ambiente e le persone».

Savarese affronta la grande sfida della robotica: le macchine sanno fare tante cose, ma non capiscono il contesto. «A differenza dell’uomo» dice «se vede un bimbo sul marciapied­e e una palla che rotola sull’asfalto, il robot non capisce che deve frenare perché il ragazzino potrebbe attraversa­re: noi cerchiamo di addestrarl­o usando le reti neurali e il machine learning».

Usciamo e in mezzo a una sala c’è un grosso robot rosso con 4 braccia. E questo? «Ah, gli insegniamo a preparare un piatto di pasta. Ma è dura, ci vorrà tempo. Per adesso stiamo provando con le omelette».

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