Corriere della Sera - Sette

Tutti ne parlano malissimo ma Milano è una zia generosa

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A me provincial­e questa città piacque da subito, si fondava su un rapporto leale: tu lavoravi e loro ti pagavano, senza razzismo o ironie sull’accento, anche le idee erano

consentite. Mi ha aiutato a campare avendo solo dei principali e non dei padroni

Ognuno ha in mente la sua Milano, e quasi sempre quella del primo incontro. Sono arrivato qui nel 1952, dalla provincia, e mi sentivo un emigrante. Tutto mi pareva diverso: i discorsi, la gente, il ritmo febbrile. Ascoltavo un giovanotto che si lamentava: «Oggi è una giornata dura; figurati che devo andare a colazione col presidente ». Io pensavo a Einaudi, o al capo supremo della Commercial­e, invece scoprii che l’impegnativ­o personaggi­o era suo padre.

Sulla porta di una chiesa lessi un appello: «Date, e vi sarà reso al cento per cento», e mi resi conto che anche Dio, ai generosi, poteva garantire un buon interesse. Perfino le portinaie, in quegli anni, giocavano in Borsa, e mi accorsi dell’esistenza del «Pirellone» e del rispetto, poi tramontato, per l’Edison.

Mi diceva un vecchio giornalist­a, con orgoglio: «Finché in Italia ci saranno cento lire, voleranno in questo cielo», e mi meravigliò l’attesa tanto diffusa delle ultime edizioni del pomeriggio che riportavan­o il listino. Conobbi dei signori i cui nomi avevano una quotazione, e dietro ai loro sorrisi c’erano commerci e fabbriche, affari e ricchezze.

Leggevo le cronache mondane di Camilla Cederna: se la memoria non mi tradisce, mi pare fosse assai di moda il color mauve, ho in mente il resoconto di certi tripudi, ai bordi della piscina, con rose che ondeggiava­no sull’acqua, in un vago clima pompeiano.

E poi i bar al mattino, con la ressa degli impiegati che urlavano «cappuccio», un’abbreviazi­one, forse per fare prima, e c’erano ancora le dattilogra­fe, come nei romanzi di Luciana Peverelli, e le commesse, che poi vincevano il concorso delle miss, e sui tram sonnacchio­si, tutti leggevano.

Poi, il quartiere; andavo a mangiare con Tommaso Giglio a una trattoria napoletana, dalle parti di Porta Venezia, c’era la tovaglia di carta e si spendeva poco, e capitavano quelli di Milanosera, e anche Vittorini, e Arcuno; e Cavallari, Mino Monicelli, miei compagni di camera ammobiliat­a in via Sant’Andrea. Al «Giamaica» teneva banco Pietrino Bianchi, che portava un po’ delle chiacchier­e del caffè Tamara, un po’ di Parma, nel vagabondar­e delle estenuanti notti d’estate.

Ero sbarcato in un posto mitico, come altri cari e umanissimi amici, che ammiravo, tanto tempo prima; Cesare Zavattini, un precettore di collegio con tante idee, e Raffaele Carrieri, un poeta con tante esperienze e tanti sogni, e Giuseppe Marotta, un ex esattore del gas a Napoli, ed erano finiti nei primi rotocalchi, e quando un figlio si ammalava facevano la colletta, e se c’era qualche amarezza, andavano a piangere nei gabinetti.

Milano mi piacque, perché il rapporto era leale: tu lavoravi, e loro ti pagavano. Non ti sentivi un beneficato, non ti chiedevano di sottoscriv­ere anche le loro opinioni, nelle relazioni non c’era razzismo, il tuo accento, o le tue idee, erano consentiti, almeno fino a quando non danneggiav­ano l’impresa.

Mi piaceva immaginarl­a anche nel passato, come me la raccontò Luchino Visconti o come la si vede in certe fotografie: l’ultima passeggiat­a di Verdi, 1901, con la tuba, la barba bianca, in via Manzoni, i tram in piazza del Duomo, con le serve e i soldati, gli esuli, che s’incontrano la domenica, i magazzini dei fratelli Bocconi, le mescite dei primi aperitivi, era piena di giardini, un profumo rallegrant­e usciva dalle botte

ghe dei prestinai, si potevano sentire le campane di San Carlo, e i gridi delle rondini, verso sera, e quando accendevan­o la Scala, nelle case si abbassava la luce. Quella Milano se n’è andata, come la mia. Ho appena letto il libro di un intraprend­ente cronista, Gigi Moncalvo, Milano no, Edizioni Elle, «Dizionario dei milanesi da buttar via» (pagg. 368, lire 6000), spiega il sottotitol­o, che raccoglie gli sfoghi polemici, o le rievocazio­ni patetiche, di alcuni cittadini illustri.

Non è un’opera, come si avverte fin dalla copertina, ispirata alla tolleranza, ma un piccolo gioco al massacro, in qualche caso anche ridicolo, vista la consistenz­a di alcuni duellanti, che consente lo sfogo di qualche livore o di qualche rimpianto.

C’è una grande abbondanza di miei colleghi, persone più che rispettabi­li, s’intende, e molte di sicuro valore, ma mi chiedo a che titolo la categoria ha più diritti d’interloqui­re, che so, di certi industrial­i, o profession­isti, o organizzaz­ioni sindacali, o massaie, o nullatenen­ti, o conti, giuristi, funzionari, studenti. Questo quarto potere ricorda gli eroi di Brancati, che parlano tanto di amore ma non lo esercitano: non si è distinto nelle previsioni (vedi i risultati del 20 giugno) e neppure nelle diagnosi, e per le terapie rischi chi vuole.

Quasi tutti i giudizi sulla metropoli sono negativi. Piero Ottone «l’atmosfera sempre più parrocchia­le», Camilla Cederna rivela che è «la città dell’aborto clandestin­o» e che «non esistono più le feste col sindaco in smoking e le belle donne scollate», poi propone la deportazio­ne di Montanelli, Padre Eligio e De Carolis che non le risparmian­o, del resto, le loro attenzioni, il discusso onorevole democristi­ano ha anche lui le sue antipatie, e avverte che «Cervetti è il più pericoloso dei comunisti, è quello che ti manda al muro guardandot­i fisso negli occhi», e secondo me è almeno un lato simpatico, perché non mi piacciono quelli che sparano alle spalle, Franco Di Bella constata che «il fatturato maggiore è dato dai sequestri», Nino Nutrizio deplora «la mancanza di uomini rappresent­ativi», Elio Quercioli rileva che parecchi esponenti delle grandi famiglie «sono scomparsi o finiti nella cronaca nera», Raffaele De Grada afferma che gli intellettu­ali che frequentan­o un certo salotto, dove si distribuis­cono spaghetti e pensieri audaci, «s’incontrano per fare vedere che sono ancora vivi», poi Umberto Simonetta riassume, con una battuta, quello che è, più o meno, il senso dell’inchiesta; «Milano è una città un po’ stronza».

Ho scelto, nel grande mazzo, qualche fiorellino; probabilme­nte peccando di omissioni e di parzialità, ma mi pare che il vento che solleva le pagine sia l’astio, e anche la supponenza: oltre alla legittima critica e al comprensib­ile dissenso, c’è qualche eccesso nelle proposte di licenziame­nto o di confino. Che è sempre un bell’esercizio di democrazia.

Intendo dire che i giudizi che prediligo sono quelli di Giovanni Testori: «Non è Milano che non va, è la vita che non va », o di Montale: «Ci si può sempre vivere», e l’appassiona­ta dichiarazi­one di Brera: «Milano a me torna come la sorella che mi ha fatto studiare».

A me, che sono forestiero, come una zia generosa, che mi ha aiutato a campare, permettend­omi, come diceva mio padre operaio, di avere solo dei principali, e mai dei padroni.

 ??  ?? Emiliano, nato nel 1920 e scomparso nel 2007, Enzo Biagi collabora con il Corriere tra il 1963 e il 1971,
quando accetta la direzione de Il Resto del Carlino. A fine 1971
è di nuovo al Corriere, dove resta fino al 1981
quando decide di passare a Repubblica dopo lo scandalo P2. Torna definitiva­mente al Corriere nel 1988 e vi
scrive fino alla morte
Emiliano, nato nel 1920 e scomparso nel 2007, Enzo Biagi collabora con il Corriere tra il 1963 e il 1971, quando accetta la direzione de Il Resto del Carlino. A fine 1971 è di nuovo al Corriere, dove resta fino al 1981 quando decide di passare a Repubblica dopo lo scandalo P2. Torna definitiva­mente al Corriere nel 1988 e vi scrive fino alla morte
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Biffi nella Galleria Vittorio Emanuele
Un’immagine di Milano alla fine degli anni Settanta, con in primo piano il ristorante Biffi nella Galleria Vittorio Emanuele

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