Il “grafologo” Albertini smaschera i politici
le più banali tecniche di selezione del personale», è rimasto per così tanto tempo “in prestito” alla politica che ormai si sente «l’uomo che visse due volte: ventitré anni come imprenditore e poi presidente di Federmeccanica, ventitré come sindaco due volte di Milano e poi due volte parlamentare europeo e una volta senatore».
Appena tornato (almeno in parte) al vecchio mestiere di imprenditore entrando nel CdA di Mittel, Gabriele Albertini dice d’aver ormai mollato la dedizione alle auto da corsa coltivata da quando era un figlio di papà dotato a vent’anni di una Porsche 911s: gli fu fatale anni dopo la confessione d’esser andato la prima volta a Strasburgo da deputato Ue con una Porsche ancora più rombante toccando sulle autostrade tedesche no-limit i 290 chilometri l’ora: «Ma come! Lui! Il sindaco che ha seppellito di multe i milanesi!». Quella che non ha mollato è una passionaccia per la politica.
Certo, non sa bene per chi votare, visto che negli anni si è adattato a Silvio Berlusconi e a Mario Monti anche se il suo primo amore resta Giovanni Malagodi: «Io sarei un liberale ma il centro di oggi…». Un’idea sui leader di oggi, però, ce l’ha. Costruita anche su quella attenzione alla grafologia («Mi raccomando: scriva che non mi picco di essere uno scienziato, sono un dilettante») per la quale lo punzecchiavano.
Spiega ad esempio che della grafia di Matteo Salvini ha solo «poche righe in stampatello dunque non facili da interpretare perché è il corsivo quello più chiaro da “leggere”. Dalla firma però sì, qualcosa si può capire, anche se confesso di non essere così esperto. Posso solo dire che una firma così, una specie di cartiglio decorativo, che si distacca così nettamente dal corsivo ordinario, indica di solito una personalità che vuole rappresentarsi in modo diverso da come è». Cioè? «Diciamo più “esibitiva” del normale. Certo ha un fortissimo ego. Anche se mai come Trump».
La firma di The Donald, infatti, «è mostruosa. Quasi patologica. Enorme, caricatissima, col tratto molto pesante. È probabile che usi anche dei pennarelli per accentuare ancora più il proprio Io. È una specie di marchio. Un timbro. C’è solo lui. Con una firma così è un uomo pericoloso. Se poi penso che è il più potente del mondo e ha l’atomica!».
E il suo amico “Giuseppi” Conte? «Secondo me Trump deborda e lui lo lascia debordare. Se è consapevole è una grande qualità, in diplomazia. Se fosse subita, invece… Per me lo asseconda. Certo è una persona intelligente. Ha il segno largo di lettere molto marcato. Si vede che è dotato. La sua è una scrittura abbastanza fluida, capace di lasciare scorrere i propri pensieri… Una cosa significativa è che qui ha le aste rette e lì le lettere curve. Il che sta a indicare una persona che ha dei conflitti interiori. Di qua vedi la sua struttura morale, le sue convenzioni, il suo codice etico. Di là la sua propensione, marcata, a farsi influenzare da altri. Da una parte vedi la schiena diritta, dall’altra questa sua influenzabilità. Guardi questa parola: “accolto”. La “t” è di
Il «nostro caro sindaco scafocefalico con carattere sub scafoide ed elevazione bregmatica», come lo chiamò tanti anni fa Francesco Merlo dopo averlo sottoposto a una «misurazione del cranio e dell’indice facciale» per sorridere della sua passione per le varie tecniche più o meno scientifiche con cui studiava «nel dettaglio la vera personalità dell’uomo enfatizzando e ridicolizzando
«DI MAIO SCRIVE DA INDECISO, TRUMP
INVECE HA UN EGO PERICOLOSO. BERLUSCONI? RABDOMANTE DELLE COSCIENZE»
ritta, la “l” curva. Lì c’è tutto: la schiena dritta e l’appeasement, l’accomodamento».
Luigi Di Maio? «Vedo una scrittura pendente. Con le lettere addossate l’una all’altra, come dovessero sostenersi a vicenda. Il che indica una persona non molto sicura di sé. Incostante. Vede? Va e viene da un calibro più grande a uno più piccolo. Può passare da un eccesso all’altro». Non occorrono grafologi, per dirlo! «Lo so, ma la sua scrittura lo dice chiaramente. Non pare uno con grande rigore. Non sto dicendo sia scorretto. Ma che va un po’ di qua un po’ di là. A seconda delle circostanze. Le lettere addossate, i cambi di calibro, le linee concave… È un uomo liquido, più che solido».
Nicola Zingaretti? «Oddio, non mi prenda troppo sul serio. Lo scriva di nuovo». Ancora? «Ancora. Mi diletto, non pretendo di essere uno studioso. Certo, dalla scrittura, il leader pd pare un po’ tirchio. Non dico sparagnino sui soldi… Tiene le lettere molto vicine, attaccate, con poche interruzioni. Il contrario di chi è prodigo. Quando uno scrive con le ”enne” distanziate, con gli spazi larghi vuol dire che come persona tende alla generosità. Ad allargarsi. Lui invece è piuttosto critico. Poi ha delle punte, angoli non marcatissimi che però ci sono… Al di là dell’aspetto pacioso da professore liceale è una persona spigolosa, uno che può avere dei conflitti. Delle contrarietà. Delle impuntature. Certo, la sua tendenza appare lineare. Seria. Una da pacta sunt servanda… Avrebbe una tendenza rigorosa. Credo si sia dovuto adattare alle circostanze facendo il governo coi 5 Stelle. Forzando la sua natura. Deve averlo sofferto sul piano psicologico oltre che politico».
Matteo Renzi? «Grafologicamente è esattamente ciò che è nella realtà. Un uomo con molta audacia, al limite della temerarietà. Un uomo che sa vincere. Ma non sa elaborare una sconfitta. Un lottatore che pensava di poter fare il sindaco d’Italia. Via io, via tutti. Non ha funzionato. E non si dà pace».
Il migliore, sospira, sarebbe stato Silvio Berlusconi: «Ha una intelligenza superiore. Una grande capacità di conoscenza delle persone. Sinuosa ai massimi livelli. È un rabdomante delle coscienze. La sua grafia è chiarissima. Ha capacità istantanea di capire chi ha davanti. Sa farsi concavo e convesso. Rispetto a Conte sa usare questa sua capacità in maniera più sapiente. A seconda di come gli conviene. Le sue lettere hanno pochissimi angoli. Quindi è una persona che tutto sommato perdona, è generosa, non ha risentimenti…». Sicuro? Gianfranco Fini diceva che «nessuno sa odiare come odia Berlusconi». «Beh, certo, non è una mammola…».
Lo fondarono alcuni italiani e diversi inglesi, tra i quali il giocatore più rappresentativo, Herbert Kilpin, e il primo presidente Alfred Edwards. Il Milan nacque il 16 dicembre 1899 con una vocazione internazionale e non a caso è di gran lunga la squadra italiana di calcio che si è laureata più volte campione d’Europa. La leggenda vuole che il carismatico Kilpin, al quale il Comune di Milano finalmente ha deciso di intitolare una rotonda accanto alla sede attuale della società rossonera, abbia scelto anche l’emblema e i colori delle maglie: «Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari», è la sua frase che viene tramandata. Un anno e mezzo dopo, il 5 maggio 1901, la prima compagine calcistica di Milano interrompeva il predominio del Genoa, fino allora incontrastato, vincendo il primo scudetto. A Londra nel 1963 avrebbe infranto il monopolio iberico in Europa, sconfiggendo il Benfica Lisbona in finale di Coppa dei Campioni. 120 anni spesi bene.
Invece è proprio lui. Il Brunetta vero, l’ex generale di Forza Italia. C’è la foto: catenaccio al collo e la tradizionale smorfia, sempre a metà tra un ghigno di ironia amara e la promessa d’un rimprovero tremendo.
Va bene, è lui. Ma che vuole? Giura di battersi fino alla morte contro la costruzione di una discarica nella zona di Falcognana, sull’Ardeatina, periferia sud-ovest di Roma. «Da quelle parti c’è il santuario della Madonna del Divino Amore», butta lì un giovane cronista (in realtà, le redazioni sono piene di giovani perché anche nelle redazioni, come nelle fabbriche, tutti gli anziani sono stati prepensionati). «Veramente, in quella zona, oltre al santuario, ci sarebbero pure i vigneti dell’onorevole», aggiunge un altro cronista in fiore (certi crescono magnificamente veloci e perfidi).
La storia smette così di essere stramba.
come un economista di rango, così amabile in privato, possa diventare tanto ruvido quando entra in azione. Nel 2008, da ministro della Pubblica amministrazione, prese di petto tre milioni di burocrati trattandoli da fannulloni. E memorabili restano le sue litigate con due tigresse come Carfagna e Gelmini (ma una volta il gigantesco Denis Verdini, a Palazzo Grazioli, davanti a un Cavaliere spaventatissimo, perse la pazienza e lo alzò di peso da terra).
Insomma: se qualcuno pensa di infettare la vigna a Brunetta, è avvertito.