Silvana che incantò Calvino
La sua folgorante apparizione in Riso amaro da maggiorata chic e fiera è uno dei fermo-immagine di culto del cinema del dopoguerra. In calze sopra al ginocchio e maglietta aderente una Silvana Mangano 18enne cantava (con voce sua) i canti delle mondine.
La vulgata – confermata anche dai racconti familiari della figlia Veronica – vuole che il provino andò male perché lei si presentò troppo truccata. Successe che poi il regista Giuseppe De Santis la incontrasse per strada per caso in Via Veneto, senza ombrello, con i capelli bagnati e il trucco svanito, un fiore semplice in mano, una piccola margherita: e ne fu conquistato come se la vedesse per la prima volta. Era lei, reduce dal concorso di Miss Italia 1947, la protagonista ideale, come non averlo capito prima! Italo Calvino, che in quel tempo scriveva per l’Unità, fece un’incursione giornalistica sul set di Riso Amaro e alla vista di Silvana Mangano ne restò incantato, scrisse che era la più bella ragazza che avesse mai visto, con il viso e i capelli della Venere di Botticelli «ma con un’espressione più fiera, dolce e fiera insieme, un mirabile ritmo di curve piene e d’arti longilinei».
Poi vennero per Silvana altri film da maggiorata, dove lei, che aveva studiato da ballerina e che ballerina avrebbe voluto essere, infilava piccoli numeri di ballo: indimenticabile in Anna di Alberto Lattuada quel mambo del Negro Zumbòn, che vede il debutto come compositore del maestro Armando Trovajoli, e che per quanto riguarda l’interpretazione allusiva e sensuale di Silvana non ha niente da invidiare a Rita Hayworth. Ma quella Mangano esplosa nei cuori e negli occhi degli italiani che uscivano dal dopoguerra presto svanì. E – come da un bozzolo – per quanto pregevole uscì fuori un’altra Silvana, smagrita, affinata nel viso e nel corpo ma anche nell’anima, quintessenza della signora borghese con qualche rovello in più. Si accorsero di quella trasformazione due intellettuali del cinema come Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti: Pasolini (Edipo Re, Teorema )ne colse l’essenza in una lettera aperta a lei dedicata e pubblicata sul Tempo illustrato nel 1968: «Tu sei lontana. Appari dove si crede, si lavora, ci si dà da fare: ma sei dove non si crede, non si lavora, non ci si dà da fare. Come una lastra di vetro fra te e il mondo».
Visconti la volle in Morte a Venezia, Ludwig, Gruppo di famiglia in un interno. Ma forse la vera Silvana non era la mondina e neppure la moglie raffinata del grande produttore Dino De Laurentiis che le cuciva addosso parti privilegiate, era una terza, era una donna tormentata, quasi consumata da un nuovo affanno interiore che la portava a vivere fragilità insospettate, attrice superba ma a tratti insicura di sé, mai contenta neppure del suo corpo e mai convinta della sua bellezza. Che diceva ad Alberto Sordi, secondo leggenda a lei devoto e suo compagno in molti film, da La grande guerra a Lo scopone scientifico, “per favore fammi ridere”, consumata da quel suo male di vivere che sfogava in piccole sculture (ha fatto busti in bronzo a tutti e quattro i figli) o in lavori a piccolo punto, tovaglie, tappeti, imprese infinite e monacali che ricamava silenziosa e assorta: «Mi piace la calma, la solitudine dei lavori d’ago, soprattutto mi piace l’esattezza che esigono» diceva.
Se aveva riso poco, smise del tutto e cominciò a morire quando scomparve il figlio, Federico, venticinquenne, che morì in un incidente aereo in Alaska. Definitivamente piegata dalla sua depressione, morì a Madrid (dove viveva dopo la separazione dal marito), per un tumore allo stomaco, il 16 dicembre 1989. Ultimo suo film, Oci Ciornie di Nikita Mikhalkov con Marcello Mastroianni, suo amore dell’adolescenza, che la volle nel film: si erano conosciuti nel quartiere San Giovanni a Roma quando erano innamorati e pieni di promesse.