Lo squillo solitario di un telefono a filo
Ho un debole per Il grande freddo, film agrodolce (del 1983) che racconta un gruppo di ex compagni sopravvissuti al suicidio di uno di loro e al tempo che passa: alle cene tra ex compagni di classe si sentono i baci della buonanotte che, finito il limbo degli studi, la morte ha iniziato a elargire ogni sera, prima del sonno. Sì, la sto facendo un po’ tragica, sarà l’effetto malinconico e lirico di Buongiorno ragazzi, la raccolta di Valentino Ronchi (MIlano, 1976), quasi un romanzo in versi, edito da Fazi, che squaderna sogni e ricordi dell’autore e di alcuni suoi compagni, costretti a fare anzitempo i conti con il tempo perduto a causa della morte di un loro professore. Al racconto dell’adolescenza milanese degli Anni 80 si mescola il presente di chi ha messo su famiglia, chi è partito, chi non è tornato, chi è fallito, chi si è reinventato. I ricordi sono vividi, fantasmi acerbi i sogni di allora. Ronchi usa in maniera mesmerica oggetti e frasi, in un’opera di restauro che è disvelamento: «La vita è quanto vedi quando levi / ciò che le hai messo sopra per nasconderla». La memoria è muta e ventriloqua: tace, al funerale dove gli amici hanno le foto dei figli nei cellulari; e strilla, nell’eco del trillo solitario di un telefono a filo, in una casa vuota, tanti anni prima.
Versione teatrale del celebre film di Baz Luhrmann,
(fino al 5 luglio) è sfarzo, eccessi strabilianti, splendore e romanticismo.
Portato sul grande schermo da Rob Marshall nel 2002 e premiato con sei Oscar, (fino al 16 febbraio) è il musical con il più alto numero di repliche a Broadway.