MOURINHO, IL SUO CANE E GLI UOMINI CHE CAMBIANO
«My dog died and my dog is my family, so it’s very difficult: but we have to move on», il mio cane è morto e il mio cane è la mia famiglia, così è davvero un momento difficile: ma dobbiamo andare avanti. Sembrano le parole del più tenero e docile tra gli esseri umani, invece sono dello Special One José Mourinho, l’allenatore più duro e più cool del calcio moderno. Ma perché siamo costretti a dire “invece”? Perché ci appare così strano che Mourinho, prototipo del macho, riveli la propria debolezza e tenerezza durante un’intervista a bordo campo?
Due elementi per nulla banali: da un lato i maschi, anche quelli a cui attribuiamo lo stereotipo del machismo, oggi hanno meno paura a mostrare la loro sensibilità, superando il timore di venire derisi; dall’altro — cosa che aggiunge alla riflessione qualcosa di inatteso — Mourinho confessa la sua tristezza non per un lutto umano, ma animale: «È morto il mio cane».
L’esperienza della perdita di un animale con cui si è condiviso un lungo tratto di strada induce a ripensare dalle fondamenta il nostro rapporto con le cose — con tutte le cose attorno a noi — come ho provato a raccontare nel mio nuovo libro Il cane e il filosofo. Il caso del “triste Mourinho”, che fino a ora ricordavamo per le frasi da spaccone come «zero tituli» o «non sono un pirla» pronunciate quando era allenatore dell’Inter, introduce il tema della fragilità in un mondo di supereroi (presunti) come quello del calcio in cui ancora molti temi, come l’omosessualità, sono assolutamente tabù (vi viene in mente anche solo un giocatore gay?), e soprattutto lo fa in un mondo che, a cascata, arriva anche in tutti gli altri universi maschili, vista l’importanza che il calcio ricopre nel nostro tempo. Il cane, elevato a familiare
L’EDITORIALE
da uno dei re del pallone, induce anche il telecronista che sta intervistando Mourinho dopo una partita del Tottenham a fargli le condoglianze in modo serissimo — un campo di senso, quello del calcio, dove paradossalmente vale un ipse dixit paragonabile solo a quello ecclesiastico: se è vero, come sostengono molti antropologi, che gli stadi sono le nuove chiese dove trascorrere la domenica, sarà altrettanto vero che “un’enciclica” sulla fragilità scritta e interpretata da Mourinho rischia di essere molto più efficace di qualsiasi altro diktat.
Maschi fragili dunque non più come sinonimo di debolezza, ma di bellezza: un filo rosso — sottilissimo per ora, ma comunque da notare e coltivare — lega la tristezza dello Special One per il suo cane, la ribalta del calcio femminile anche in Italia, la messa in discussione definitiva del machismo come valore. La fragilità, come il diavolo, sta nei dettagli: nella voce spezzata con cui Mourinho dà la notizia del suo lutto e nelle semplici e disarmanti parole «my dog» — nessuna vergogna a parlare di un cane, come ricorda il filosofo Jean Grenier nel suo In morte di un cane (Mesogea 2011), «perché la nostra sorte è comune». E così, nel tempio contemporaneo del sacro, cioè lo stadio, improvviso irrompe il profano: la morte, la fragilità ancora una volta, un cane che muore … e così, anche simbolicamente, che improvvisi arrivano i progressi.
Chi potrebbe mai vergognarsi a soffrire per un cane, adesso, se addirittura ne ha pianto Mourinho a bordo campo? Chi potrebbe mai pensare di essere “troppo maschio” per piangere se anche le lacrime, improvvise, sono arrivate nello spazio sacro della domenica sportiva, non perché si è persa una partita ma perché non si aveva nessuna voglia di giocarla? «But we have to move on», dobbiamo andare avanti: solo quest’ultima frase arriva, quasi consolatoria, a rassicurare “i duri” in ascolto. Prima o poi, forse, non avremo neanche paura di dire «ma dobbiamo fermarci almeno per oggi». Se Mourinho non si fosse presentato? Se avesse preferito l’assenza per lutto? Chi lo sa, per ora godiamoci un tempo in cui fragilità e debolezza non sono più sinonimi: forte è solo chi può permettersi di non nascondere una ferita, fortissimo chi non ha vergogna di dichiarare che quella ferita può arrivare da qualsiasi simbolo interpretato dello stare al mondo — un cane che muore vale qualsiasi altra tragedia, se è letta come tale. In un libro ormai cult, Il lupo e il filosofo (Mondadori 2011), Mark Rowlands raccontava proprio la sua esperienza di giovane e macho professore e giocatore di rugby alla prova della crescita e della successiva sofferenza per la morte di un cucciolo di lupo; esiste una letteratura che va riscoperta e che, come le parole di Mourinho, ha la funzione di irrompere nella gabbia ovattata e finta degli uomini privi di dolore: piano piano, dal calcio, potremmo improvvisamente passare alla politica.
Una nota frase di Winston Churchill dice: «Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio». Se aveva ragione Churchill, forse, siamo sulla giusta strada: più calcio con qualche lacrima, nessuna guerra.
Leonardo Caffo, 31 anni, catanese, è filosofo e curatore d’arte contemporanea. Il suo nuovo libro Il cane e il filosofo esce il 20 gennaio per Mondadori
CHI POTRÀ PENSARE, ORA, DI ESSERE TROPPO MACHO PER PIANGERE, SE LE LACRIME SONO ARRIVATE FIN DENTRO LO STADIO?