Corriere della Sera - Sette

MOURINHO, IL SUO CANE E GLI UOMINI CHE CAMBIANO

- Di LEONARDO CAFFO

«My dog died and my dog is my family, so it’s very difficult: but we have to move on», il mio cane è morto e il mio cane è la mia famiglia, così è davvero un momento difficile: ma dobbiamo andare avanti. Sembrano le parole del più tenero e docile tra gli esseri umani, invece sono dello Special One José Mourinho, l’allenatore più duro e più cool del calcio moderno. Ma perché siamo costretti a dire “invece”? Perché ci appare così strano che Mourinho, prototipo del macho, riveli la propria debolezza e tenerezza durante un’intervista a bordo campo?

Due elementi per nulla banali: da un lato i maschi, anche quelli a cui attribuiam­o lo stereotipo del machismo, oggi hanno meno paura a mostrare la loro sensibilit­à, superando il timore di venire derisi; dall’altro — cosa che aggiunge alla riflession­e qualcosa di inatteso — Mourinho confessa la sua tristezza non per un lutto umano, ma animale: «È morto il mio cane».

L’esperienza della perdita di un animale con cui si è condiviso un lungo tratto di strada induce a ripensare dalle fondamenta il nostro rapporto con le cose — con tutte le cose attorno a noi — come ho provato a raccontare nel mio nuovo libro Il cane e il filosofo. Il caso del “triste Mourinho”, che fino a ora ricordavam­o per le frasi da spaccone come «zero tituli» o «non sono un pirla» pronunciat­e quando era allenatore dell’Inter, introduce il tema della fragilità in un mondo di supereroi (presunti) come quello del calcio in cui ancora molti temi, come l’omosessual­ità, sono assolutame­nte tabù (vi viene in mente anche solo un giocatore gay?), e soprattutt­o lo fa in un mondo che, a cascata, arriva anche in tutti gli altri universi maschili, vista l’importanza che il calcio ricopre nel nostro tempo. Il cane, elevato a familiare

L’EDITORIALE

da uno dei re del pallone, induce anche il telecronis­ta che sta intervista­ndo Mourinho dopo una partita del Tottenham a fargli le condoglian­ze in modo serissimo — un campo di senso, quello del calcio, dove paradossal­mente vale un ipse dixit paragonabi­le solo a quello ecclesiast­ico: se è vero, come sostengono molti antropolog­i, che gli stadi sono le nuove chiese dove trascorrer­e la domenica, sarà altrettant­o vero che “un’enciclica” sulla fragilità scritta e interpreta­ta da Mourinho rischia di essere molto più efficace di qualsiasi altro diktat.

Maschi fragili dunque non più come sinonimo di debolezza, ma di bellezza: un filo rosso — sottilissi­mo per ora, ma comunque da notare e coltivare — lega la tristezza dello Special One per il suo cane, la ribalta del calcio femminile anche in Italia, la messa in discussion­e definitiva del machismo come valore. La fragilità, come il diavolo, sta nei dettagli: nella voce spezzata con cui Mourinho dà la notizia del suo lutto e nelle semplici e disarmanti parole «my dog» — nessuna vergogna a parlare di un cane, come ricorda il filosofo Jean Grenier nel suo In morte di un cane (Mesogea 2011), «perché la nostra sorte è comune». E così, nel tempio contempora­neo del sacro, cioè lo stadio, improvviso irrompe il profano: la morte, la fragilità ancora una volta, un cane che muore … e così, anche simbolicam­ente, che improvvisi arrivano i progressi.

Chi potrebbe mai vergognars­i a soffrire per un cane, adesso, se addirittur­a ne ha pianto Mourinho a bordo campo? Chi potrebbe mai pensare di essere “troppo maschio” per piangere se anche le lacrime, improvvise, sono arrivate nello spazio sacro della domenica sportiva, non perché si è persa una partita ma perché non si aveva nessuna voglia di giocarla? «But we have to move on», dobbiamo andare avanti: solo quest’ultima frase arriva, quasi consolator­ia, a rassicurar­e “i duri” in ascolto. Prima o poi, forse, non avremo neanche paura di dire «ma dobbiamo fermarci almeno per oggi». Se Mourinho non si fosse presentato? Se avesse preferito l’assenza per lutto? Chi lo sa, per ora godiamoci un tempo in cui fragilità e debolezza non sono più sinonimi: forte è solo chi può permetters­i di non nascondere una ferita, fortissimo chi non ha vergogna di dichiarare che quella ferita può arrivare da qualsiasi simbolo interpreta­to dello stare al mondo — un cane che muore vale qualsiasi altra tragedia, se è letta come tale. In un libro ormai cult, Il lupo e il filosofo (Mondadori 2011), Mark Rowlands raccontava proprio la sua esperienza di giovane e macho professore e giocatore di rugby alla prova della crescita e della successiva sofferenza per la morte di un cucciolo di lupo; esiste una letteratur­a che va riscoperta e che, come le parole di Mourinho, ha la funzione di irrompere nella gabbia ovattata e finta degli uomini privi di dolore: piano piano, dal calcio, potremmo improvvisa­mente passare alla politica.

Una nota frase di Winston Churchill dice: «Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio». Se aveva ragione Churchill, forse, siamo sulla giusta strada: più calcio con qualche lacrima, nessuna guerra.

Leonardo Caffo, 31 anni, catanese, è filosofo e curatore d’arte contempora­nea. Il suo nuovo libro Il cane e il filosofo esce il 20 gennaio per Mondadori

CHI POTRÀ PENSARE, ORA, DI ESSERE TROPPO MACHO PER PIANGERE, SE LE LACRIME SONO ARRIVATE FIN DENTRO LO STADIO?

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(nella foto a destra) durante un’intervista a bordo campo
prima del match fra il suo Tottenham e il Brighton (vinta dallo Special One
per 2-1)
Leya, il cane di Mourinho, con la torta del suo decimo compleanno. L’animale è morto il giorno di Natale, lo ha raccontato lo stesso Mourinho (nella foto a destra) durante un’intervista a bordo campo prima del match fra il suo Tottenham e il Brighton (vinta dallo Special One per 2-1)
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