Corriere della Sera - Sette

Il dilemma del prigionier­o e un tassista che non t’aspetti

- Di ROSELLA POSTORINO

A Napoli arrivai in ritardo per colpa del treno, dovevo partecipar­e a un evento, prima però volevo passare in albergo a cambiarmi la maglietta sudata. Il tassista forse veniva da fuori anche lui, perché ebbe bisogno di impostare via Chiaia sul navigatore. Tra il traffico e il caldo, io continuavo a sudare. A un certo punto, quando credevamo di essere ormai arrivati, ci incastramm­o in una stradina stretta, affollata, la cui viabilità era ridotta da un cantiere. Il tassista mi disse: scenda, vada e torni, non si preoccupi, l’aspetto qui. Ci impiego cinque minuti, promisi. Non mi chiese un acconto né un numero di telefono. Io avevo fretta e non ci pensai.

Trascinai il trolley sul marciapied­e striminzit­o, scansando i passanti, e di corsa sui tacchi raggiunsi il civico. Ma a quel civico, signori, l’hotel non c’era. A dire il vero non c’era neanche via Chiaia, solo che non me n’ero accorta. Il tassista aveva sbagliato strada. Non ci si può più fidare nemmeno del Gps, non dico dei tassisti. È qui

sopra, mi segnalò un ragazzo, sali con l’ascensore. Io l’ascensore non lo prendo ché soffro di claustrofo­bia e non mi fido. Così mi accollai parecchie rampe di scale, mi parvero infinite; poi, per grazia ricevuta da Google Maps, scovai finalmente l’ingresso dell’albergo. Tra registrazi­one, rinfrescat­a e cambio d’abito, passarono almeno venti minuti. La presentazi­one in libreria stava per avere inizio e io avrei dovuto rifarmi tutta la strada sino al taxi, che per togliersi dall’ingorgo si era spostato chissà dove. E se poi, dopo tutta quella fatica, non l’avessi trovato? Probabilme­nte il tassista aveva deciso di andarsene perché era trascorso troppo tempo e non mi aveva più vista arrivare. Non avevo il suo numero, non potevo avvertirlo. D’altra parte, non gli avevo pagato la corsa: per forza contava sul fatto che tornassi; sarebbe rimasto ad aspettarmi per ricevere i suoi soldi. Ma gli conveniva? Come poteva esser sicuro che sarei spuntata di nuovo su quella stradina di cui tra l’altro ignoravo il nome?

Dice: tu non ti fidi abbastanza degli altri. Per esempio, lo dice il mio compagno, e lo diceva pure il mio analista. Può darsi abbiano ragione loro: in effetti, sul tema della fiducia, io mi ci sono addirittur­a laureata, e poco dopo ho scoperto che del mio relatore avrei fatto meglio a non fidarmi – ma questa è un’altra storia, con Napoli non c’entra.

DOVEVA PORTARMI IN UN ALBERGO DI NAPOLI E AVEVA SBAGLIATO STRADA. MI INCITÒ A PROSEGUIRE A PIEDI, MI AVREBBE ATTESO

Oppressa dai dubbi, consultai il concierge. Secondo lei, domandai dopo avergli raccontato la storia, è meglio che chiami un altro taxi da qui? Il concierge era un signore garbato, ma del tassista in attesa non intendeva occuparsi, mica si voleva prendere la responsabi­lità. Mi avvisò soltanto che le macchine non potevano circolare lì davanti, ma a pochi minuti a piedi avrei incrociato una stazione dei taxi, problema risolto. Sì, ma il problema etico? Mollo il mio tassista con la sua fede nell’umanità e corro all’appuntamen­to di lavoro, rubando una corsa (e ribaltando ogni stereotipo sui napoletani mariuoli), oppure mi metto una mano sulla coscienza e vado da lui, col rischio che si sia dileguato? In quel caso dovrei cercare un nuovo taxi, e farei tardissimo.

Mi sembrava di essere finita nel dilemma del prigionier­o, lo ricordate? Due tizi accusati di ricettazio­ne sono rinchiusi in celle separate per essere interrogat­i. Ai tizi spiegano che, se uno dei due confessa e l’altro no, il primo sarà rilasciato, mentre il secondo si beccherà dieci anni. Se confessano entrambi, andranno in galera per un periodo di cinque anni. Se invece nessuno confessa, saranno entrambi condannati, ma a un anno e basta. Insomma, qualora negassero tutti e due, se la caverebber­o con la pena più lieve, eppure – e questo è il paradosso del gioco inventato dal matematico canadese Albert William Tucker – la strategia migliore è la confession­e, dato che i prigionier­i non possono comunicare. Magari si erano accordati sul proposito di negare, ma se adesso, isolato in cella, uno cambia idea e defeziona? Come fanno a fidarsi? In assenza di informazio­ni sulle mosse dell’altro, compiono la scelta più razionale, cioè tradirsi, anche se non è quella ottimale.

In assenza di informazio­ni sulle mosse, anzi sui movimenti in strada, del mio tassista, o di un numero di telefono per verificarl­i, avrei fatto meglio a tradirlo e chiamare un altro taxi. Lui avrebbe perso il prezzo della corsa, io però sarei arrivata in orario. A differenza dei prigionier­i del più famoso paradosso della teoria dei giochi, peraltro, con la mia defezione non rischiavo un bel niente. Nondimeno, mi si stringeva il cuore a immaginare quell’uomo con le mani al volante dell’auto spenta, la sua pazienza inutile, la sua benevolenz­a offesa.

Dice: tu non ti fidi di nessuno, e infatti ero convinta di aver preso la decisione sbagliata, ma non riuscivo a evitarlo. E non era per difendere un’immagine positiva di me stessa, tutti facciamo i conti con le nostre meschinità e siamo rapidi a scagionarc­i. È che su questa cosa della fiducia, signori, non si scherza: se sei uno che non si fida degli altri, a maggior ragione non puoi tradirli, perché se anche tu ti riveli inaffidabi­le, allora è vero che il mondo è minaccioso, che non c’è scampo.

DOPO UNA LUNGA SOSTA IN HOTEL SAREI RIPARTITA PER UN’ALTRA DESTINAZIO­NE. NON L’AVEVO PAGATO: L’AVREI RITROVATO?

Il tassista si era appoggiato a un muro per fumare una sigaretta, mi accolse sereno. Salendo in auto, gli confidai che avevo paura se ne fosse andato. Dopo tutto questo tempo, dissi, avrebbe potuto pensare che non venissi più. Invece ero sicuro che sarebbe tornata, rispose lui, io le persone le riconosco dalla faccia.

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SILVIA AVALLONE 31 GENNAIO
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TERESA CIABATTI 24 GENNAIO
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CHIARA GAMBERALE 7 FEBBRAIO
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