QUANTO È SCOMODO (PER LEGGE) MANGIARE LA PIZZA AL TRANCIO
Non sedie, ma sgabelli. Non tavoli, ma mensole. Solo posate di plastica e caffè “fai da te”. Sono servite oltre 30 circolari ministeriali per stabilire le regole che un artigiano deve seguire per far consumare sul posto i propri prodotti. Un’indagine della Cna ha fatto il punto. Obiettivo: cercare di cambiare
Non sedie, ma sgabelli. Non tavoli, ma mensole. E perdipiù sgabelli e mensole scoordinati, ad altezze non combacianti. Posate monouso, fragili, poco pratiche e fra poco fuorilegge. Tovaglioli e tovagliette rigorosamente di carta. Bevande da prendere direttamente dal frigorifero o dal magazzino. E poi “caffè fai da te” dalle macchinette. Insomma, un manuale completo su come rendere scomoda la ristorazione. Il paradosso è che a prescrivere la scomodità è la legge, la complessa e per molti versi incomprensibile norma che disciplina il consumo di prodotti alimentari direttamente in una rivendita artigiana. Avete in mente il fornaio che fa i migliori cornetti (o brioche) del quartiere? O il pizzaiolo con mille gusti di pizza al taglio? Per legge devono sottostare alle regole della scomodità, agli spazi, magari angusti, nei quali la sofferenza (del cliente) e la disperazione (del titolare) sono imperdibili accessori.
A entrare nel merito di cervellotiche disposizioni statali e locali è la Cna che ha dedicato alla sfida delle imprese artigiane alla prova dell’evoluzione dei consumi alimentari il rapporto annuale sulla “burocrazia demenziale” spesso imperante nel nostro Paese, “Comune che vai, burocrazia che trovi”. Un’indagine che mette sotto accusa la differenziazione via via intercorsa tra due concetti in apparenza non lontani: la ristorazione assistita e quella non assistita di cibi e bevande.
Un Everest di scartoffie
Per definire questi concetti sono state necessarie oltre trenta circolari ministeriali. Con quale risultato? L’idea di voler creare uno spazio dove il cliente possa mangiare cibi fatti dall’artigiano, senza l’assistenza di personale, è diventata quasi sovversiva. Per l’artigiano e per lo stesso cliente che evidentemente viene visto come un potenziale complice. La ragione? Proteggere l’esclusiva specificità dei ristoranti: da loro sedie allineate, posate e piatti non in carta, bibite e caffè al tavolo.
Per far consumare sul posto il cibo prodotto in laboratorio l’artigiano è costretto a scalare un Everest di scartoffie. Circa 70 adempimenti servono per avviare l’attività, altri 20 per consentire il consumo immediato dei prodotti, col rischio inalterato di subire controlli da uno o più dei soggetti abilitati agli accertamenti: dalle guardie ecologiche alla Capitaneria di porto passando per il medico veterinario. Per evitare l’accusa di abusivismo, gli artigiani del settore – a esempio, chi sforna pizze in teglia – sono in genere costretti a ottenere il titolo di esercizio di vicinato, uno strumento giuridico del commercio, per il quale possono essere indispensabili fino a venti adempimenti e 140 ore di corso.
Gli arredi e le attrezzature L’artigiano che voglia arredare un locale per il consumo sul posto dei suoi clienti deve tenere conto