Sana’a come Venezia, fermiamo le catapecchie “moderne”
Un appello in nome della città. Succede prima della proiezione a Milano di un documentario del poeta e regista, a margine del film Il fiore delle mille e una notte. La frustrazione e un febbrile desiderio di fare qualcosa lo hanno spinto a filmare la deturpazione che avanza come lebbra
Ho girato questo breve documentario una domenica mattina. Era l’ultima domenica che passavamo a Sana’a, capitale dello Yemen del Nord. Avevo un po’ di pellicola avanzata dalle riprese del film. Teoricamente non avrei dovuto posseder l’energia per mettermi a fare anche questo documentario; e neanche la forza fisica, che è il requisito minimo. Invece energia e forza fisica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare. Ci tenevo troppo a girare questo documento. Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana’a li sentivo come problemi miei. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva con un dolore, una rabbia, un senso di impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui sono stato perentoriamente costretto a filmare.
Il documentario doveva essere un “appello all’Unesco” (nel cui seno pare ci sia una sezione che si occupa dei paesaggi urbanistici dei “Paesi in via di sviluppo”). Certo, a Sana’a non c’è ancora una
Non c’è nemmeno un’opinione pubblica (non esistono ancora giornali e televisione: le radioline trasmettono eternamente una certa appassionata musichetta proveniente non so da che stazione; oppure solenni notiziari).
Non ho trovato nessuno nelle mie lunghe permanenze in quella città che capisse veramente la mia angoscia, che io credevo di condividere con lui. Evidentemente nessun yemenita ha coscienza della bellezza delle proprie città. Nessun yemenita sa che Sana’a è degna, mettiamo, di Venezia. Una città (Taiz) è già stata completamente distrutta e ricostruita. Doveva essere stupenda. Ora è una delle più brutte città del mondo...
Nessuno nega che gli yemeniti debbano liberarsi dal Medioevo. Però le casette “moderne” che, per esemplo a Taiz, hanno sostituito le vecchie stupende case medioevali, se sono di una bruttezza inenarrabile (dovuta alla povertà del materiali, al gusto ridicolo ecc.) non hanno affatto l’aria di essere molto più comode di quelle antiche. Anzi, si vedono certi tettucci di bandone che fanno sudare, e provare un senso di soffocamento solo a guardarli. Le vecchie case erano meravigliosamente protette sia dal caldo che dal freddo. Lo so, sono discorsi un po’ reazionari. Ma un minimo di programmazione edilizia “bolognese”...
L’ultimo giorno che sono stato a Sana’a sono anche finalmente riuscito a parlare con una persona abbastanza importante del Governo Repubblicano (che mi guardava un po’ spaventato, cominciando a comprendere). Gli ho detto che potevano mandare un loro intellettuale (ma c’era?) appunto a Bologna, o in Jugoslavia, a Dubrovnik. Certo, rispetto all’insieme dei problemi economici e politici dello Yemen, questa era una proposta un po’ troppo audacemente anticipata. D’altra parte bisogna anche tener conto che nello Yemen non c’è petrolio, e che si tratta di un paese privo di ogni risorsa naturale. Non si vede dunque, per il momento, nessun’altra possibile fonte di ricchezza che il turismo. Quindi il primo problema del Paese è proprio preservare dalla distruzione le sue città, che sono un fenomeno unico.
Fino a soli pochi anni fa nello Yemen non era successo niente. Non c’è soluzione di continuità dal Medioevo al 1967. Il mondo architettonico yemenita è intatto. Le apparizioni delle città di Yarim o di Imran (ma solo, ormai, da alcune angolazioni) sono un miracolo di rapporto tra città e natura circostante. La città è cinta dalle mura, e al piedi delle mura comincia il deserto, o qualche orticello, coi suoi canaletti, il suo orzo, i suoi limoni...
L’origine di questa architettura è probabilmente ebraica: la diaspora ha portato gli ebrei fin laggiù (non so in che secolo). Nelle città di Jibb e Jibba, nel cuore della regione c’è sui portoni la croce di David. E c’è effettivamente una certa rassomiglianza con Gerusalemme medioevale. Però può darsi che gli ebrei abbiano elaborato un già preesistente e raffinato canone architettonico. Il problema non è solo dello Yemen, ma di molti Paesi arabi. Certo il caso dello Yemen è assolutamente particolare perché in realtà il Paese, nel suo insieme, è da salvare. Come un museo? Sia pure. Lo spazio è enorme, le città piccole. Si possono costruire i quartieri moderni separati dalle vecchie città. Ma è inutile che dica queste cose... Insomma ho cercato di fare qualcosa. In seno alla Lega Araba e con la collaborazione di alcuni intellettuali italiani, tra cui soprattutto Lelio Basso, abbiamo fondato finora solo nominalmente
una commissione italo-araba per la difesa del beni architettonici yemeniti. Ma è chiaro che se volessi veramente ottenere qualcosa, dovrei dedicare a questo scopo la mia intera vita. Son cose che qualche volta si pensano ma poi non si fanno. Frustrazione terribile, non consolata dal pensiero che ci sono persone che, in realtà, per mestiere, dovrebbero occuparsi di questi problemi e che dunque la responsabilità è devoluta a loro... Ma intanto ogni giorno che passa è un pezzo delle mura di Sana’a che crolla o vien nascosto da una catapecchia “moderna”.