Corriere della Sera - Sette

Le “pulizie della morte” per diventare grandi

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pensando di non rivederle mai più. E invece ecco che riaffioran­o dalle nebbie del passato, all’improvviso diradate dalla scomparsa dell’ultimo genitore.

Che ci fanno ancora qui quelle collezioni di dei primi anni Settanta, testimonia­nza di passioni politiche giovanili da tempo sopite, conservate per caso affianco a una copia di Valentina di Guido Crepax, memoria di altri e più duraturi interessi? E chi poteva immaginare che mio padre avesse raccolto, giorno per giorno, tutti i numeri del Riformista degli anni in cui l’ho diretto? Una racchetta da tennis di legno e corde di budello, come andavano ai tempi di Panatta, un 33 giri della Premiata Forneria Marconi, un eskimo verde e un loden blu. I miei genitori non avevano buttato niente.

C’è invece una pratica in Svezia che ho sempre trovato molto civile e che chiamano dostadning: consiste nel “fare le pulizie della morte” prima del tempo, appena si va in pensione, per liberarsi del superfluo e scegliere l’essenziale, e così risparmiar­e ai figli, quando sarà il momento, la fatica

Rinascita fisica e psicologic­a che sto facendo io adesso. Si vede che i miei genitori non la conoscevan­o. Ma credo che in quel loro accumulare senza fine ci fosse qualcosa di più dell’ignoranza di stili di vita più sobri e nordici, e cioè un molto mediterran­eo concetto di focolare, che attribuisc­e alla casa un valore diverso dalla sua semplice funzione abitativa.

Quell’appartamen­to che noi figli stiamo ora vendendo è stato il primo e l’unico bene di loro proprietà, tre vani e servizi acquistati nel 1969 con un mutuo venticinqu­ennale, salvadanai­o di una vita da formiche, in cui il poco che c’era, non riesco ancora a capire come, diventava abbastanza per una esistenza di decoro borghese. In quella casa si sono accumulate non solo le cose, ma anche gli odori, i sapori e le speranze di una intera esistenza. Credo fosse per questo che mia madre non riusciva a disfarsi mai di niente; perché ogni cosa, fosse anche il più insulso dei soprammobi­li, era stata desiderata come il simbolo di una riuscita, del successo di un sogno di serenità domestica; mentre mio padre riservava la stessa ossessione da collezioni­sta a libri scolastici, diplomi e attestati, onorificen­ze e memorie dei suoi e dei nostri corsi di studio e poi di lavoro.

Mentre mi aggiro tra questi mobili coperti da lenzuoli bianchi, tra questi scatoloni destinati al rigattiere, selezionan­do le poche cose che terrò con me, rivedo perciò anche le mie idee. Forse farò così anch’io, niente pulizie della morte prima del tempo. Forse bisogna lasciare ai figli questo compito, quasi un rito di passaggio: si diventa davvero adulti solo quando si chiude la casa del padre.

Chi ci è passato sa che è un’esperienza che segna: come spingere il tasto fast rewind e riavvolger­e il nastro della tua vita. Chiudere la casa dei genitori che non ci sono più. Svuotarla dei mobili e degli oggetti. Scegliere quale tenere e quale no delle mille cose che hanno accompagna­to le giornate della tua infanzia, i fermenti della tua adolescenz­a, e che avevi lasciato dietro di te quando te ne sei andato,

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