«MI AVETE VISTO NASCERE, CRESCERE
che sembrava un essere superiore, per grazia e talento.
«A Milano mi sentivo come se fossi parte di una famiglia. Insieme abbiamo vissuto una vita intera. Mi avete visto nascere, come giocatore e come uomo. Mi avete visto crescere. E purtroppo avete visto la fine».
Van Basten, cosa ricorda della cerimonia di addio al calcio sul prato di San Siro?
«Era tutto triste. Erano tristi gli sguardi dei miei ex compagni, che cercai di incrociare il meno possibile, perché mi ero promesso di non piangere. Non fu una festa. C’era tristezza ovunque. Quella del pubblico, e la mia. Correvo, perché non volevo far vedere che zoppicavo, battevo le mani alla gente. E intanto pensavo che non c’ero già più, mi sembrava di essere ospite del mio funerale».
Aveva paura del futuro?
«Quella sera pensavo soltanto che la mia vita era stata il calcio. Adesso era diventata una fogna. Avevo solo 31 anni, non giocavo più da due. Avevo il fegato a pezzi per gli antidolorifici. Avevo un dolore pazzesco a quella caviglia maledetta. Ero disperato».
Era anche depresso?
«Dopo, quando ne sono uscito, ho capito di aver vissuto qualcosa di simile alla depressione. All’epoca non capivo. Ero troppo concentrato sul mio stare male. Mi chiedevo perché questa sofferenza dovesse toccare proprio a me. Non ho mai trovato una risposta».
Si sente ancora vittima di una ingiustizia?
«Ho smesso quando ho passato i quarant’anni, ovvero l’età in cui tutti smettono di giocare. Fino a quel momento non c’è stata una mattina in cui non abbia pensato a quel che avrebbe potuto essere». Cosa sarebbe diventato Marco van Basten con una caviglia normale?
«In pratica ho smesso di giocare a 28 anni. Avevo vinto tre Palloni d’Oro. Guardi oggi gli ultratrentenni Ronaldo e Messi, a che punto sono».
A proposito…
«Ronaldo è un grande giocatore. Ma chi sostiene che sia più forte di Messi non capisce di calcio oppure è in malafede. Messi è unico. Inimitabile e irripetibile. Come lui, uno ogni cinquant’anni. Da bambino è caduto nella pento
molto orgoglioso di me. Al tempo stesso era un padre, come dire, olandese. Mi spiegava il calcio, mi sosteneva, ma era anche distaccato, freddo. Non ho mai giocato per lui, se è questo che intende».
Da chi è arrivata la spinta decisiva?
«Dall’ambiente. Dai miei allenatori delle giovanili all’Ajax. Da Johan Cruijff, che è stata la figura calcistica più importante per me. A forza di sentirmi dire che ero speciale, ho finito per crederci anch’io».
Per lei cos’è il calcio?
«Un gioco da bambini, nel senso più puro e vero del termine. I rapporti tra giocatori, e con gli allenatori, sono regolati da un modo di interagire infantile e irrazionale. Io ti do una cosa, tu cosa mi dai in cambio? Funziona così. Difficile da spiegare a chi non fa parte di quel mondo».
Per questo i suoi rapporti con i giornalisti sono sempre stati
disse che sarei tornato ad alti livelli, ma nessuno avrebbe saputo dire per quanto. Me lo dimenticai subito. Ero convinto che sarei durato per sempre. Dicevo sempre ai miei compagni che avrei smesso a 38 anni. Come poi hanno fatto Franco Baresi e Paolo Maldini. Ci credevo davvero. Quando sei giovane, ti senti immortale».
Chi comandava, nello spogliatoio del Milan?
«Nel calcio le gerarchie vengono sempre stabilite dalla bravura. Non conta l’età, il successo, lo stipendio. Solo la bravura».
Allora perché lei non è mai stato considerato un leader?
«A me bastava “comandare” in campo. Avevo l’ossessione di vincere, in questo ero simile a Sacchi. Tra noi, mi sentivo rappresentato da Baresi, da Maldini che era più giovane ma si faceva sentire». Amici?
«Ci aiutavamo tra noi. Era una squadra di calciatori intelligenti,
favoriti per rivincere, aggiungere un’altra squadra conveniva a tutti. Fu una vera porcheria. Ancora oggi mi brucia».
Jürgen Kohler, Pasquale Bruno… Chi le ha portato via più mesi di carriera?
«Nessuno. Mi facevo rispettare anch’io. Loro volevano fermarmi, io dovevo fare gol. Tutto normale. Non sono stato rovinato dai difensori cattivi, ma dai cattivi chirurghi».
Cosa rappresenta la data del 21 dicembre 1992?
«La fine dei miei sogni. Stavo giocando da Dio, avevo un allenatore che mi piaceva, Fabio Capello. Mi fa male la caviglia, decido di operarmi. L’errore che segna la mia vita».
Perché non ascoltò il parere dei dottori del Milan, Monti e Tavana, che le consigliarono di non farlo?
«Lei non può immaginare quanto l’ho rimpianto. Ogni mattina,