LA STANZA DEI FIGLI
Un gruppo di genitori e il dolore immobile, senza tempo, senza alternativa, del lutto (anche per la perdita di un marito, di un fratello). Dalla disperazione però si può uscire: Maria Cristina, Vittoria, Liliana, Jolanda, Patrizia, Michele si incontrano ogni settimana. E insieme tornano a vivere
dovevo farla curare prima. Ha sofferto così tanto. Questa cosa mi sta scavando dentro: rivedo tutta la sofferenza di Eleonora, che ha avuto la diagnosi di tumore a 14 anni e se n’è andata a 18, non riesco a tirarmela fuori dalla testa. So che ora sta bene, che ha smesso di soffrire, ma è dura. Mi ritorna in mente tutto, anche i dettagli degli ultimi giorni che credevo di avere dimenticato: la bara che si chiude, lo strazio di non poterla più toccare. Ogni notte mi sveglio e rivivo l’agonia di mia figlia. Ho anche pensato di volte mi capita di sentire una gioia e una serenità indescrivibili: succede anche a voi? Allora mi chiedo; ma com’è che mi sento così? lei che mi pervade d’amore. Non pensiamoli in una tomba, loro lì non ci sono».
Jolanda, madre di Mirko, una lunga malattia, l’illusione per le riprese, la disperazione per le ricadute: «Il senso di colpa... C’erano i segnali, ti ammazzeresti da sola: perché non ho capito? Questo dolore, che è tanto, lo maschero, perché ci sono persone in casa che
Èe strazio».
Jolanda: «Non riesco a rispondere alla domanda: tutta questa sofferenza a cosa è servita, se poi se n’è andato?».
Riprende Vittoria: «Sono la sua mamma, ero la prima a doverla aiutare e invece non ho potuto far nulla. Dopo che se n’è andata, non ricordavo neppure il suo sorriso, e lei sorrideva sempre: guardavo le foto e non riuscivo a riconoscerla. Come si fa ad accettare la malattia di un figlio? Non volevo più sentire nulla, ho detto ai miei altri due ra
trovavo la forza di alzarmi non perché dovevo andare al lavoro, non perché i miei familiari erano preoccupati per me, ma perché andavo in chiesa. Quando piangevo disperata, mi infilavo lì dentro e mi accorgevo che ciò che ritenevo insuperabile alla fine era passato. Bisogna darsi una regola e attivarla ogni volta che il baratro si apre davanti a noi».
Seconda regola: dopo ogni pensiero di morte, avere un pensiero di vita. «Ogni volta che pensavo all’incidente o ad altre cose mostruose mi dicevo: adesso mio figlio è vivo e al sicuro, lo ripetevo come un mantra, un tormentone. Poi sono arrivate delle consolazioni: dei sogni, dei vissuti che mi hanno fatto pensare che dopo ci sia qualcosa e che la vita continui. Mi sono rifiutata di ricordarlo con il vuoto e ho deciso di far germogliare tutte le cose meravigliose che ha lasciato dentro di me».
Terza regola: usare una bussola. «Quando ancora sopravvivevo a fatica, dividevo le cose in utili e non utili allo scopo. Sapevo che dovevo continuare a vivere, perché era questo che Federico mi chiedeva, e così mi concentravo sull’obiettivo: scegliere le cose utili alla vita e abbandonare quelle distruttive mi ha aiutato a muovere i primi passi. Ora vivo le mie giornate con la consapevolezza che mio figlio mi sia accanto».
Presenze e assenze
Rosella: «Io non credo che in questo momento ci siano i miei pa
della stupida. Siamo tutti imperfetti. Giorgio non è più dov’era, ma è ovunque sono io».
Lucilla (che ha perso il marito, Enrico): «Io penso che con mio marito la storia sia appena iniziata, sono profondamente convinta che ci sarà un seguito molto lungo ancora».
Patrizia risponde a Vittoria Patrizia è qui perché ha perso il suo compagno, insieme hanno avuto tre figlie, ora anche lei si è ammalata: «Sono stata ricoverata molte volte, ma se mia madre mi ricordasse come stai facendo ora tu con Eleonora, mi incazzerei di brutto. Io non sono sofferenza, non sono malattia. Sono un disastro di figlia, è vero, sono confusione, sono un uragano, sono mille cose. Ma siamo altro, Vittoria: non puoi identificare tua figlia con la sofferenza. La malattia non l’accetti mai: arriva e ti piomba addosso, allora dai i numeri, ti arrabbi, lanci le cose, ma poi ci scendi a patti e ti rendi