AMAZON & GLI ALTRI PER CAPIRE LA CRISI
A livello globale, quattro lavoratori su cinque stanno patendo la chiusura totale o parziale della propria attività produttiva. Ma c’è anche chi assume, dimostrando come cambia in fretta la mappa dell’occupazione nel mondo Ecco chi sale e chi scende. Con una consapevolezza: indietro non si torna
Nel 1929 la Coca-Cola aprì una filiale in Germania che produceva, appunto, la famosa bevanda con le bollicine. Hitler avrebbe preso il potere qualche anno più tardi e in un primo momento la produzione di Coca-Cola proseguì all’interno del Terzo Reich. Le cose però cambiarono nel secondo conflitto mondiale con l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Le società americane cessarono ogni business con il nemico, compresa la Coca-Cola che interruppe l’esportazione dell’ingrediente segreto della bibita.
Cosa c’entra questo con il coronavirus? Ora ci arriviamo. L’amministratore delegato di quella società tedesca era un certo Max Keith che si era messo in testa di voler tenere aperta l’azienda a tutti i costi. Decise così di inventarsi un’altra bevanda compatibile con il razionamento dell’economia di guerra e che era un insieme di avanzi: bucce di frutta, fibre e polpa di mela, zucchero di barbabietola e siero di latte avanzato dalla produzione di formaggio. Per quell’insieme di avanzi si scelse l’abbreviazione della parola tedesca
“Fantasie”, Fanta.
Ora voi vi aspettereste un “papiello” su come trasformare la crisi in opportunità ma la verità è che quanto sta accadendo in questi giorni, con il virus, è già accaduto in passato. Con altri dieci, cento, mille Max Keith che hanno cambiato il loro lavoro. Come lo abbiamo cambiato tutti noi allo scoppio di questa emergenza sanitaria.
Quattro su cinque
Gli uffici si sono svuotati e si sono trasferiti nelle nostre case, in un angolo del salone, della cucina o della camera da letto. Facendo schizzare in alto l’asticella dello smartworking. Questo per i più fortunati. Perché il coronavirus ha portato con sé anche un insieme di stime, numeri e dati che riguardano un altro mondo: quello delle partite Iva in crisi, dei ristoranti e bar chiusi, dei lavoratori autonomi senza più garanzie, delle aziende ferme che hanno messo i dipendenti in cassa integrazione. In Italia sono state oltre 4 milioni le domande all’Inps per il bonus di 600 euro riservato ai lavoratori autonomi. Il cosiddetto distanziamento sociale ci ha regalato insomma quello che il Fondo monetario internazionale ha definito la più grande recessione globale post ’29. Proprio l’anno dello sbarco della Coca-Cola in Germania ma soprattutto l’anno della Grande depressione quando la crisi economica sconvolse l’economia mondiale. Oggi come allora, non siamo preparati ma sappiamo che a farne le spese sarà l’occupazione. Secondo l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro dell’Onu, rischiamo di perdere 25 milioni di posti di lavoro a livello globale. Una cifra con alcuni settori, più di altri, in estrema difficoltà: manifattura, real estate, vendita diretta, trasporti, ristorazione, turismo ma anche musica, arte e spettacolo. Più di 4 persone su 5 (81%) nella forza lavoro globale, che ammonta a 3,3 miliardi di lavoratori, sono attualmente interessate dalla chiusura totale o parziale delle attività produttive. «Con il virus dovremo conviverci, questo è evidente», spiega l’amministratore delegato di Ran
FONTE: INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION
ceo di Impactscool, «dall’albergatore alla piccola attività commerciale che dovrà imparare a fare le consegne a casa e non come sta succedendo adesso attraverso un numero di telefono che risulta sempre occupato. Di sicuro c’è fermento digitale e questo potrebbe portare a un’accelerazione dei processi innovativi. Avremo bisogno ad esempio di Ma anche di operai in ambito chimico e farmaceutico per la produzione di disinfettanti e mascherine, addetti alla sicurezza, rider, magazzinieri, operatori per la consegna della spesa online. E se, come previsto da Harvard, quella del coronavirus sarà un’emergenza che ci porteremo avanti fino al 2022, forse dovremo tenere a mente la lezione di Max Keith che da una guerra, una poltiglia di scarti e una necessità, fece nascere la Fanta. Che poi divenne quella che conosciamo oggi con l’aiuto degli italiani e lo stabilimento di Napoli a cui venne in mente di aggiungere il succo d’arancia.