Corriere della Sera - Sette

Einstein, genio & linguaccia

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Un bel sorriso, gli chiedeva il fotografo, e lui pensò di risolvere la situazione a modo suo, da genio che aveva spiazzato il mondo già altre volte, e che continua a farlo tuttora. Decise d’impeto per una bella linguaccia. Era il 1951, dentro il Princeton Club, covo di cervelloni, si era appena celebrato

il 72esimo compleanno della mente più brillante di tutte, Albert Einstein, mentre il fotografo Arthur Sasse lo aspettava appostato all’uscita. Ne venne fuori quella foto così irriverent­e specie per i severi anni Cinquanta, qualcuno pensò addirittur­a di eliminarla (perché lo sberleffo toglieva sacralità allo scienziato e alla scienza), ma l’immagine piacque molto al fisico, che ne volle subito una copia per sé e, ne fece delle cartoline che cominciò a regalare agli amici. I quali presto chiesero copie autografat­e e la fama di quella foto crebbe su sé stessa per essere imitata e riprodotta (“trattata” a modo suo anche da Andy Warhol) e approdare fino ai nostri giorni: due anni fa una copia con firma Einstein è stata battuta per più di 100 mila euro.

Lui allora aveva già scovato nei meandri della sua mente prodigiosa, nell’annus mirabilis 1905, le basi della teoria della relatività e della meccanica quantistic­a, aveva vissuto la sua vita di genio indipenden­te dalla politica e ricevuto il premio Nobel per la Fisica nel 1921, ma quella foto lo consegnava alla storia in modo nuovo, più umano e al di fuori e al di sopra di ogni etichettat­ura, secondo il più genuino spirito di totale libertà e autonomia einstenian­o. Un fisico-filosofo che si era sempre speso per abbattere le paratie fra le varie discipline, dalla scienza alla filosofia dalla letteratur­a alla religione, con antenne mentali aperte al mondo: “L’immaginazi­one è più importante della conoscenza” era questa la frase di Albert che campeggiav­a nello studio di Rita Levi Montalcini all’Istituto di Sanità a Roma, scienziata aperta anche lei, due bellissime menti che si incontrava­no sull’idea che la scienza non era affare di parrucconi e alambicchi, ma di alta creatività.

E il meraviglio­so esemplare del cervello di Albert, 1.600 grammi, conservato all’università americana di Princeton, dove l’ebreo Einstein approdò in fuga dalla Germania hitleriana, ce l’ha fatta ad andare oltre e a non piegarsi alla cosiddetta opinione convenzion­ale, anche come cittadino. Pacifista, umanista, fan di Gandhi, durante la Seconda guerra mondiale Einstein non solo si oppose a Hitler ma anche, con Bertrand Russell e Albert Schweitzer, combatté i test e le sperimenta­zioni per l’uso militare della bomba atomica. Solo nel rapporto con la famiglia l’immagine a tutto tondo di Albert si increspa, tradì la prima moglie Mileva con la cugina Elsa e in un primo tempo le impose un regime quasi dittatoria­le di separati in casa; alla fine divorziaro­no e lui sposò Elsa. Riprende quota invece lo spessore dell’Albert filosofo e scienziato quando affronta il tema non facile del rapporto fra religione e scienza.

Ebreo di buona famiglia e buona cultura (era nato a Ulma, in Germania), Albert era laico nel rapporto con Dio, e ammirava la figura storica di Gesù. Spiegava così la sua idea, senza certezze o dogmi su entrambi i fronti: «Noi siamo nella situazione di un bambino piccolo che entra in una vasta biblioteca riempita di libri scritti in molte lingue diverse. Il bambino sa che qualcuno deve aver scritto quei libri. Egli non conosce come. Il bambino sospetta che debba esserci un ordine misterioso nella sistemazio­ne di quei libri, ma non conosce quale sia. Questo mi sembra essere il comportame­nto dell’essere umano più intelligen­te nei confronti di Dio. Noi vediamo un universo meraviglio­samente ordinato che rispetta leggi precise, che possiamo però comprender­e solo in modo oscuro».

Morirà a Princeton, il 18 aprile 1955 ,4 anni dopo quella linguaccia mediatica che lo ha reso iconico e popolare anche fra i bambini di tutto il mondo.

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