QUANTO FITZGERALD C’È NELLE PAGINE DI YATES
Richard Yates, americano (19261992), fu «uno dei grandi scrittori meno famosi d’America» (definizione di Esquire). E anche «uno degli scrittori americani più puri di questo secolo» (definizione di Kurt Vonnegut che considerava Revolutionary Road, il capolavoro di Yates, «Il grande Gatsby della mia epoca»).
Yates idolatrava Francis Scott Fitzgerald, maestro di stile nella letteratura e nella vita. E adorava la scena del ricco, famoso e giovane Francis che si tuffava nella fontana del Plaza (come una profezia di Anita Ekberg) «con i vestiti addosso e le tasche piene di banconote». Ed era (cito sempre Vonnegut; passerei la vita a citarlo) «un uomo attraente come Fitzgerald», alto un metro e novanta e vestito come la premonizione di un modello di Armani.
Minimum fax pubblica un romanzo di Yates, Il vento selvaggio che passa, con un ottimo contorno di notizie sull’autore. È la storia di Michael Davenport, già mitragliere di bordo su un B-17 e aspirante poeta e drammaturgo. Michael sposa Lucy Blaine, ricchissima ereditiera. Antropologia fitzgeraldiana per eccellenza. Sentite la descrizione dei genitori di Lucy: «Il signor Blaine e sua moglie erano alti e snelli e aggraziati… Avevano entrambi quel tipo di pelle tesa e abbronzata che si accompagna a una padronanza disinvolta del tennis e del nuoto, e le loro voci roche lasciavano pensare che apprezzassero molto l’assunzione quotidiana di alcol».
E di tocchi fitzgeraldiani (alla re Mida) il romanzo è pieno («lo squillo montante e trionfale degli ottoni di Glenn Miller»), fino all’apparizione (evocazione) dello stesso Fitzgerald: «Pare quasi di scorgerlo in vestaglia lassù alla finestra, con una mezza bottiglia di gin, che controlla se è già mattina. Ha passato la notte a rifinire un altro racconto, in modo che sua figlia possa finire un altro anno al Vassar College». Vorrete sapere se è un bel romanzo. Ve lo dirò la prossima volta.