NEW YORK COME LA SAVANA IL FOTOGRAFO ARISTOCRATICO CHE SE NE ANDÒ A MORIRE NEL BOSCO
«Si è mai accorta che l’ultimo Papa assomiglia a Francis Bacon? Questa somiglianza mi impressiona e poi crea una singolare continuità con i ritratti che Francis faceva ai papi». Era iniziata così la chiacchierata con Peter Beard, il fotografo poliedrico protagonista per decenni del jet set americano, incontrato a Berlino nel 2009 (il Pontefice era ancora Joseph Ratzinger) in occasione del lancio del suo calendario Pirelli. Scomparso alla fine di marzo a Montauk (a Long Island, dove possedeva 5 cottage dagli Anni 70), è stato ritrovato senza vita la scorsa settimana.
Erede di grandi fortune, laureato in Storia dell’arte a Yale, frequentatore dello Studio 54, annoverava tra le sue conoscenze i Rolling Stones, che accompagnò in tournée con Truman Capote, Andy Warhol che ammaliato dal suo fascino e dalle sue intemperanze lo definì un moderno Tarzan, e tra gli amici sinceri Karen Blixen che gli schiuse le suggestioni dell’Africa, Francis Bacon che lo ritrasse almeno nove volte, Salvador Dalì con cui allestì ineffabili happening.
Ci si accorse subito che l’intervista non si sarebbe svolta in modo lineare. Ma piuttosto secondo flussi di pensiero che, se tutto fosse andato bene, avrebbero consegnato
un profilo più attendibile del personaggio. Un po’ come accadeva alle sue opere degli ultimi decenni: collage fatti di sue fotografie di moda (fu lui a scoprire Imam, futura signora Bowie) e dei grandi spazi africani, di pezzi di carta, di sangue (animale oppure il suo), di pelli, colori aggiunti a pennello, poesie trascritte a mano. Elementi disarmonici che a tavola finita rivelavano un senso estetico e un’intensità inconfutabili oltre a una preoccupazione sincera per le sorti del pianeta. «Non sopporto quelli come Bob Geldof. I problemi umanitari non si risolvono pompando soldi e cibo. L’unica medicina è la consapevolezza che deriva dall’informazione. Guardi gli elefanti, e indica una sua fotografia, sono gli animali più simili a noi. Reagiscono come gli uomini agli spazi sempre più angusti dove sono costretti a vivere: con lo stress, le malattie cardiache e distruggendo l’ambiente circostante. Non bisogna agire spinti dal senso di colpa, come mia nonna paterna, che tra l’altro conobbe Toro Seduto, che sublimò la sua necessità di espiazione costruendo nella proprietà in Minnesota la più grande chiesa cattolica degli Stati Uniti. Non serve a niente». Sarà un caso ma se n’è andato a 82 anni come un felino selvatico (si è allontanato da casa vittima della demenza? O consapevole, in ottemperanza alla sua concezione del flusso della vita?) in solitudine, ritrovato da un cacciatore.
Teneva un diario da quando aveva otto anni. Per lui tutto era passione e niente doveva essere dimenticato: non l’Africa, né le donne amate, tra cui tre mogli (l’ultima Najima, afghana che gli ha dato l’unica figlia), né le amicizie: «Lucian Freud non mi è mai piaciuto. Anche se sto rivalutando le sue ultime opere. E sa qual è il suo segreto? Bacon! Francis per ricambiare un favore gli regalò un dipinto che lui tiene segregato e da questa tela mutua un nuovo stile e una rinnovata creatività». “Francis” ritornava spesso nel discorso. Forse anche perché Roman Abramovich aveva appena acquistato per 83 milioni di dollari il trittico in cui Bacon lo aveva ritratto. Lui, nel suo piccolo, in primavera aveva venduto all’asta una sua opera per 325 mila dollari. Alla fine mi ringraziò a modo suo: prese un libro, ci mise la mano sopra, ne tratteggiò il contorno, vergò parole in una lingua sconosciuta e apprezzamenti in inglese, ci pose la data del mio compleanno e ci sputò sopra per amalgamare il tutto. Un uomo così non poteva vivere al tempo del Covid.