Kant e chi siamo «noi» per non naufragare
«Sono diversi i gradi della società umana», scriveva Cicerone, seguendo gli stoici. Si parla tanto in questi giorni di identità, ma troppo spesso si dimentica che quello che siamo, individualmente e collettivamente, è il risultato di tante relazioni. La logica binaria del «noi contro loro»
non spiega nulla, perché «noi» si carica di diversi significati: noi chi? In fondo, è tutta una questione di cerchi concentrici. Ci sono la famiglia e gli affetti privati; poi il mondo degli amici e del lavoro; e ancora, quello dei cittadini e della patria. Ma non ci si ferma certo qui: il viaggio continua fino al cerchio esterno che include tutti gli uomini. È evidente che ciò che ci è più vicino importa, e tanto. Ma non possiamo non riconoscere la linea di continuità che ci lega a tutti gli altri esseri umani in quanto esseri umani. Rimaniamo pur sempre parte dell’unica famiglia umana, membra dello stesso corpo. «Sono un Antonino, la mia patria è Roma; sono un essere umano, la mia patria è il mondo», scriveva Marco Aurelio, l’imperatore filosofo (sempre stoico), accampato presso il Danubio. Non si tratta di annullare le differenze, ma di accoglierle in un’unità più ampia.
Piaccia o non piaccia, questa vocazione inclusiva e universalista è iscritta nella tradizione europea. Il modello cosmopolita divenne celebre quando Immanuel Kant diede alle stampe un breve saggio con un titolo lungo, Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. Non era un’idea nuova. Cosmopolita è una parola greca: e lo è anche il concetto, che poi passò nel mondo
aver tratto in inganno, portando a fare confusione. Anche in quel caso, peraltro, rimane un’oscillazione tra il «diffidare dal fare» e la «diffida a fare»: e infatti almeno fino al primo Novecento era normale – in questo significato di provenienza giuridica – anche il costrutto con a, consigliato ad esempio dall’ottocentesco dizionario di Niccolò Tommaseo: «Diffidare i creditori a presentare i loro titoli».
Grazie per non usarlo
Il secondo costrutto, invece, è chiaramente dovuto all’influenza dell’inglese. Nella Lettura di qualche settimana fa, parlando del cosiddetto «doppiaggese», notavo che si sta facendo sempre più frequente il tipo grazie per rispetto a grazie di. Si tratta di due usi da sempre possibili nella nostra lingua, ma molto netta è stata fino alla fine del secolo scorso – soprattutto nei testi letterari – la preferenza per il costrutto con di. Proprio per questo, si può avanzare l’ipotesi che la recente fortuna del tipo con per sia influenzata dal modello di ( to) thank you for. Così si è passati dal Grazie dei fior di Nilla Pizzi al Festival di Sanremo del 1951 al di Monica Bellucci nel film Malena del 2000.
L’ipotesi diventa quasi certezza per quel grazie per più infinito che Lorenzo Renzi, nel suo Come cambia la lingua. L’italiano in movimento (Il Mulino,
2012), considera ancora limitato «alla lingua delle formule esposte al pubblico e allo stile delle lettere d’affari». In italiano, in effetti, il costrutto riguardava solo l’infinito passato