RICHARD YATES QUESTIONI DI FAMIGLIA
Richard Yates era bravissimo (come dicevo già la volta scorsa) e lo sapeva. Una volta scrisse un racconto su uno scrittore rimasto sconosciuto che tutti i critici ammiravano per i suoi sette romanzi nei quali non erano riusciti a trovare un difetto. Un racconto autobiografico, dice Kurt Vonnegut che stravedeva per Yates e trovava sempre in ogni suo paragrafo «forza, intelligenza, nitore».
Allora cos’è che non andava in Yates? L’ho capito leggendo Il vento selvaggio che passa. Il romanzo è scritto benissimo. I dialoghi (che sono le analisi del sangue della buona narrativa) confermano che Yates ha scritto «i migliori dialoghi dai tempi di John O’Hara». Un esempio. La madre, ricca e snob, di Lucy, la protagonista, va a trovare la figlia che vive in una specie di topaia e, amabilmente, le dice: «Adoro la tua scaletta a chiocciola, cara, ma non capisco bene a cosa serve». Lucy risponde: «È uno spunto per la conversazione, mamma».
Anche i personaggi della storia sono ben assortiti (ho un debole per Jane Pringle, la mitomane). E nel ritratto di Bill Brock, scrittore di romanzi proletari anni Cinquanta (tipo: «Joe l’Affamato gettò la chiave inglese sul trasportatore a nastro. “Vaffanculo”, disse»), possono ancora riconoscersi (e spero inorridire) gli scrittori impegnati di oggi.
In Yates non ha funzionato la fissazione per il matrimonio. Il grande critico Alfred
Kazin disse che Revolutionary Road, il capolavoro di Yates, individuava «con decisione nel matrimonio la nuova tragedia americana». Secondo Yates «non c’è altro da scrivere che della famiglia». E, coerentemente, lui lo fece. Ma l’incipit di Anna Karenina, la summa del romanzo matrimonialista, recita: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». Invece i matrimoni infelici di Yates si assomigliano tutti tra loro. Però leggetelo, ha forza, intelligenza e nitore. Vonnegut aveva ragione.