Corriere della Sera - Sette

VIA DELLA SETA

- Di GUIDO SANTEVECCH­I foto di JONATHAN BROWNING

Un anno fa, il presidente Xi Jinping annunciava l’avvio dei lavori di questa opera faraonica per legare ancora di più la Cina all’Europa. L’Italia è stato l’unico Paese del G7 coinvolto. Ora è tutto fermo, ma per quanto ancora?

Era solo un anno fa. A fine aprile del 2019 a Pechino si radunarono 37 capi di Stato e 5 mila delegati e funzionari governativ­i stranieri per il Forum sulla Via della Seta (nome ufficiale Belt and Road Initiative). Per l’Italia arrivò Giuseppe

Conte, che a marzo aveva firmato a Roma con Xi Jinping l’adesione all’iniziativa economica e geostrateg­ica «del secolo». Con 1.300 miliardi di dollari per 2.000 progetti in 68 Paesi e regioni, la visione del presidente cinese valeva sette volte il Piano Marshall lanciato dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. La visione di Xi era avvolta da molta nebbia. A partire dal nome: «Yidai Yilu» in mandarino, che significa «Una cintura, una strada»

(belt & road), ma i percorsi oceanici e terrestri erano già almeno sette, per legare la Cina all’Europa, attraverso Asia e Africa. Nuova Via della Seta, l’abbiamo chiamata noi. E a Pechino erano molto soddisfatt­i dal romanticis­mo italiano che rimandava alle carovane e ai velieri. E soprattutt­o, la partecipaz­ione dell’Italia imbarcava nel progetto di Xi il primo e unico Paese del G7. In cambio, incassammo contratti per meno di 3 miliardi, in attesa dell’effetto volano.

I sospetti

Interconne­ssione, infrastrut­ture, collegamen­ti ferroviari, marittimi, ricchezza e sviluppo per tutti, aveva promesso Xi Jinping. Tutto fermo ora, la nuova priorità globale è arginare il coronaviru­s. La globalizza­zione avrà bisogno di terapia intensiva per non morire di Covid-19. Già da tempi non virali, però, gli investimen­ti della Cina non erano immuni da sospetti e polemiche: diversi Paesi, in Asia soprattutt­o, segnalaron­o il rischio della «trappola del debito» e dei grandi progetti in aree sperdute, che servivano a far lavorare le imprese di Pechino (se qualcuno investe 1.300 miliardi, qualcuno deve indebitars­i per la stessa cifra). E poi il rischio che ad approfitta­re dei lavori fossero mafie locali, politici rapaci, perché Pechino non si interessa a questi dettagli quando firma contratti. Nella steppa del Kazakhstan sono scoppiate proteste intorno al nuovo «porto asciutto» di Khorgos, a duemila chilometri dal mare. Nello Sri Lanka, in Malesia, Indonesia, Cambogia, Pakistan, ci sono altri grandi opere miliardari­e sospese.

Un diamante

Ma anche in Cina sono spuntate assurdità nel deserto. Come nel Gansu, provincia occidental­e lambita dalle sabbie del Gobi. Svetta un Partenone, maestoso. E intorno il nulla. La copia del tempio greco è una delle tante luminose idee per richiamare l’attenzione sulla Nuova Lanzhou e farla diventare «un diamante sulla Via della Seta». Gli urbanisti del Partito hanno fatto sbancare 700 montagne e colline per spianare l’area.

Gli analisti prevedono che ci vorrà un anno per resuscitar­e la Belt and Road Initiative: aspettiamo­ci quindi un altro gran conclave di leader mondiali a Pechino, nell’aprile 2021. Nel frattempo, nel porto di Trieste arrivano container con mascherine cinesi. Pechino ha cominciato a parlare di Via della Seta Sanitaria.

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Una ricostruzi­one del Partenone nell’area di Lanzhou, la nuova città, ora abbandonat­a, sulla nuova Via della Seta
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Dall’alto lavoratori immigrati costruisco­no una strada a Lanzhou, una città edificata tra le montagne e il deserto del Guansu, in Cina. Qui sopra un operaio
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