Peter Handke, una rivelazione «Io non scrivo per le masse»
Il futuro (contestato) premio Nobel veniva già acclamato 50 anni fa come il massimo drammaturgo in lingua tedesca. Ma in un’epoca in cui si diceva di fare arte per il popolo lui andava controcorrente: «Il mio teatro non può cambiare la vita delle persone»
Hanno rapidamente attraversato l’Italia, in questi giorni, le due “punte” più spiccate e significative della nuovissima drammaturgia tedesca: il Toller, e Peter Handke. Sarebbe arduo trovare due tendenze più dissimili, più incompatibili.
Toller è, contemporaneamente, un testo fortemente “ideologico” e “impegnato”, e uno spettacolone del Teatro di Stato del Württemberg più mirabolante di una Aida a Verona. L’autore “taglia” in una svelta successione di quadri da cabaret tragico la vicenda pubblica e privata di Ernst Toller, giovane drammaturgo espressionista coinvolto da protagonista negli aggrovigliati spasimi della Repubblica bavarese dei Soviet, e della Rivoluzione Rossa, a Monaco, nel 1919. E il regista Peter Palitzsch monta con mezzi smisurati uno show rigorosamente “storicistico”. Decine di scene, decine di personaggi: sedute di assemblee, canti in birreria, lezioni universitarie, tè danzanti, sommosse popolari, fucilazioni in massa. E un gran movimento, continuo, di schermi multipli e piattaforme girevoli, di proiezioni e di passerelle, di rincorse e di su-e-giù. Ma la folta contaminazione critica di tante tecniche “datate” fra Piscator e Brecht, funziona con risultati impeccabili: intanto perché i connotati storici e stilistici del teatro di Toller sono precisamente questi; e poi, perché manca del tutto il compiacimento delle toilettes a frange o il narcisismo sul Kurt Weill.
Peter Handke discende invece dai “giochi” e dai “disimpegni” dell’ avanguardia europea più spericolata e più disperata: il Gruppo di Vienna di quindici anni fa. I suoi interessi sono innanzitutto formali e sintattici. I suoi esperimenti si compiono soltanto sulle parole. I suoi drammi – Gaspar, Insulti al pubblico – si rappresentano unicamente in salette piccolissime, senza tracce di scene o costumi. Però viene acclamato, con enorme successo, come il massimo drammaturgo di lingua tedesca nella nostra epoca. Eppure abbandona il teatro e la Germania e il successo, si trasferisce a Parigi con la moglie e l’infante, in un esilio studioso piuttosto simile a quello di Italo Calvino. E passa fra noi da solo, coi quattro foglietti d’una conferenza impervia.
Gli domando (come si usa) che cosa fa; e risponde di sentirsi, attualmente, disturbato, un po’ confuso. Dove abita? A Montmartre. Come passa i giorni? «Nella azione di leggere», e vedendo moltissimi film vecchi e nuovi, preferibilmente western popolari. Vuole davvero fare del cinema, come diceva poco tempo fa? «No, il mio atteggiamento verso il cinema è quello del consumatore, e per me esclude completamente quello dell’autore. Col teatro, è il contrario. Non lo “consumo” affatto, non ci vado mai!». E come autore? «Vorrei scrivere ancora una sola commedia, e poi basta: tutta emotiva, sentimentale, abbandonata, come il sogno di un ubriaco; tutta diversa dalle precedenti, che erano invece molto costruite, rigorosamente, addirittura come modelli astratti di commedia». E come giudica questo Toller? «L’ho già scritto, anche su Die Zeit: non mi piace quello spettacolo, perché mi pare un esempio tipico di due cose. Feticismo per una tecnica antiquata fine a se stessa. Formalismo esasperato di chi non crede più a niente».
Ma il discorso sul formalismo si fa presto tormen
toso, e i concetti sempre più imprecisi, non appena si ripercorrono le illusioni di quei gruppi francesi, letterari e cinematografici (da Tel Quel ai Cahiers du Cinéma) che aspiravano nei mesi scorsi a trasformare marxianamente la realtà con strumenti squisitamente formali... «Non mi piace parlarne, razionalizzando: non ho mai parlato a nessuno di concetti...» osserva qui Handke. «Preferisco tentare di trasformare il mondo con gli strumenti visionari del sogno, superando ogni impedimento o proibizione della realtà proprio come gli ubriachi e i sonnambuli... che trasgrediscono qualunque interdetto senza accorgersene...».
A che pubblico ritiene di rivolgersi? «È una domanda di sociologia?». Si, di sociologia della letteratura. «Ecco, allora vorrei notare che fino a poco fa ritenevo impossibile continuare a scrivere storie, con la gente, i fatti, le trame... Eppure adesso vorrei molto farlo, e credo che ci riuscirei bene, giacché si tratta di una questione non di letteratura, ma di comunicazione... Però posso solo immaginare un pubblico come me, molto simile a me... Non si scrive mai per le masse, ahimè, anche se si viene di lì: io sono figlio di operai, appunto. Però, se dichiarassi “io mi rivolgo alla classe operaia”, direi un bugia, come fanno tanti, e mi sentirei poco onesto. Non mi pare possibile “dare l’Arte alla Classe Lavoratrice”, come proclamano sempre tutti i teatranti che manipolano Brecht per i piccoli borghesi seduti in giacca e cravatta nelle poltroncine di velluto rosso. E poi si sentono ideologizzati e impegnati! A me pare utopia intellettualistica, oppure malafede politica. Al proletariato si possono offrire feticci, come fa la televisione. Ma il teatro può offrire soltanto sogni a chi si trova nell’ingranaggio della produzione e potrà mutare tutt’al più la propria mente, ma non già la propria vita. E alla lunga, non potendo mutare la vita, non riesce più a cambiare nemmeno la mente... Non so se sia un punto di vista particolarmente “disimpegnato”, questo. Ma mi sembra più onesto chiamare le cose col loro nome; e ammettere per esempio che la nostra vita si può cambiare con la politica, non già col teatro. Nemmeno quello “impegnato”».