La sofferenza della bellezza I Greci rivisti da Nietzsche
«Come la profondità del mare che resta immobile per quanto agitata ne sia la superficie»: tale è la bellezza delle statue antiche. Lo scrive il grande storico dell’arte, Johann Joachim Winckelmann, spiegando il segreto della Grecia antica,
quel senso di «nobile semplicità» e «quieta grandezza», per cui l’età moderna sente una nostalgia lacerante. Questa era, e probabilmente è ancora, la Grecia nell’immaginario occidentale: armonia, ordine, serenità – il sogno di un mondo perfetto, un miracolo, si è scritto, capace di attraversare indenne i secoli. Facile allora immaginare la reazione di irritazione, nel 1872, di fronte al libro di un giovane professore della prestigiosa università di Basilea. Il titolo era La nascita della tragedia, l’autore Friedrich Nietzsche. Se guardiamo a cosa si nasconde dietro a questi Greci tanto celebrati, scriveva, «troviamo la notte, non possiamo contemplare se non i prodotti di una fantasia abituata a cose orrende». «Ciò che è bello in superficie nasconde terribili profondità»: l’esatto contrario, insomma, di quanto aveva affermato Winckelmann. Il quale Winckelmann, del resto, pensava sempre e soltanto al dio Apollo. Ma era un altro il dio a cui occorreva guardare, il dio dell’estasi e del vino, della pazzia e del dolore. Dioniso.
L’opposizione tra apollineo e dionisiaco è una delle intuizioni più famose di Nietzsche, e delle più fraintese. Non è una celebrazione del disordine o del caos, è una riflessione sull’arte e sulla sua importanza per noi. La leggerezza e la grazia, la forma e la bellezza –
si tiene – riporta il Grande Dizionario della Lingua Italiana – «contro il divieto dell’autorità di Pubblica Sicurezza».
Non ci assomiglia per niente!
Se guardiamo all’origine della parola, quell’assembramento altro non è se non un’assemblea molto disordinata. Il concetto, potremmo dire, è quello di un assemblaggio che invece delle cose riguarda le persone. Infatti l’etimo comune a tutte queste parole è l’antico francese assembler «mettere insieme», derivato a sua volta da un latino parlato adsimulare, connesso con l’avverbio del latino classico simul: cioè, appunto, insieme. Modificandone i suoni come all’epoca era normale, da quel verbo francese l’italiano antico ha tratto – molto prima di assemblare –un assembrare, che aveva il significato di riunire ed è stato usato almeno fino all’Ottocento: «I deputati dell’assemblea e i cittadini amanti di giustizia si assembrarono», scrive il patriota napoletano Pietro Colletta rievocando la Rivoluzione francese. Da lì il nostro assembramento.
E allora Guinizzelli? Finalmente ci arriviamo.
Non prima di aver ricordato che quell’uso poetico attraversa tutta la nostra tradizione letteraria. Lo ritroviamo dalla popolareggiante Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici: «Sicché un’angiolella tu m’assembri», fino al Montale del Falsetto di Ossi di seppia in cui Esterina ha «l’intento viso che assembra / l’arciera Diana». Perché esiste nella storia dell’italiano un secondo e diverso verbo assembrare, che sembra come l’altro ma l’altro non è, derivando stavolta – proprio come sembrare e assomigliare – dal latino assimilare, cioè rendere simile. Da qui l’idea di paragonare il sembiante (altra parola dallo stesso etimo) della donna amata a due fiori come la rosa e il giglio.