Corriere della Sera - Sette

Per scrivere rinunciavo agli altri Ora, sola, mi affollano la testa

- (Freedom)

Prima del lockdown, in un giorno di sole benedetto, tornai dopo molti mesi a passeggiar­e lungo il Tevere. C’erano stati periodi in cui mi svegliavo all’alba per camminare da sola sul fiume e, dopo, andare in ufficio, e weekend interi in cui alternavo scrittura e passeggiat­e sulla banchina.

niversità, da quelli che mi piacevano o cui piacevo io, ho iniziato a scrivere in segreto dagli altri, come se scrivere fosse un tradimento. E adesso che sono lontani, adesso che non devo nasconderm­i da loro, gli altri mi affollano la testa. Questa solitudine nuova, senza scelta, che non ho strappato con le unghie, si riempie delle loro voci preoccupat­e, delle loro madri con l’Alzheimer che in quarantena peggiorano, ma nessun geriatra può visitarle, dei loro padri anziani che per la malinconia smettono di mangiare, dei loro figli rimasti senza alloggio in un altro continente, bisogna raggiunger­li, dei mariti a fare la tac ai polmoni mentre loro restano a casa col piccolo che sta mettendo i denti, dei loro passi accumulati nel tragitto fra camera, cucina e balcone, perché, sebbene le passeggiat­e non siano vietate dal decreto, le forze dell’ordine intimano a tutti di segregarsi in casa.

Non so più quante settimane fa – ho perso ormai la cognizione del tempo – mentre praticavo pilates sul pavimento, incastrata fra la scrivania e il divano, ho pensato intensamen­te a un mio ex compagno di classe. Mi sono detta: appena finisco di allenarmi, gli telefono. Ho riacceso il cellulare e ho trovato una sua chiamata. Suo padre era morto, da solo in ospedale, senza poter salutare nessuno e senza funerale, come chiunque in questo momento, e lui voleva dirmelo. Quando l’ho sentito, ha cercato di farmi ridere, neanche fosse di nuovo l’ora di geografia astronomic­a e noi fossimo seduti ai banchi in prima fila. Forse si era accorto che ero turbata, o è soltanto che lui è fatto così. Due giorni dopo gli ho domandato come stava e mi ha inviato un vocale. C’erano le note di Think

cantata da Aretha Franklin, alternate alla sua voce che parlava. Era un commovente saluto a suo padre, che lui condividev­a con gli amici per celebrare un rito, in un’epoca in cui dei riti ci hanno privato, e senza riti rischiamo di smarrire la nostra identità, ogni senso di appartenen­za.

Sui social network qualcuno dichiara che potrebbe restare in quarantena per sempre: non mi manca nulla, dice. A me manca tutto, invece, mi mancano tutti. I colleghi, il mio capo, il farmacista che mi augura sempre «buone cose», i baristi con l’accento latinoamer­icano, la zingara su via Fabio Massimo, il fioraio del mercato, le margherite e i tulipani, le panchine che in primavera scottano le cosce, i negozi di vestiti, le scarpe con i tacchi, persino i trolley trascinati dai turisti, ciascuno dei miei amici sparsi per il pianeta e, a ogni respiro, i miei familiari. Mi manca la città in cui sono cresciuta, e quella in cui sono nata: ne cerco foto in rete, sogno di rivederle, mi rendo conto di sognare sogni minimi e aggrotto la fronte. Mi manca il Tevere, e pure le silhouette sul muraglione, mi mancano dal giorno in cui ho capito che presto le avrei perdute.

Nella sua epopea figurativa, disse Kentridge, la gloria e la disgrazia sono inestricab­ilmente connesse. Ma questa non è la storia stessa dell’esistenza? Accettare che la natura sia più forte. Tollerare che il tempo deformi la bellezza. Credere alla polvere.

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