Corriere della Sera - Sette

IRENE PIVETTI

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guerra al Covid-19 - è stata sequestrat­a dalla Guardia di Finanza perché sprovvista dell’adeguata certificaz­ione.

La difesa

La sua difesa è stata inizialmen­te improntata al fatto che le regole sulla certificaz­ione delle mascherine sono cambiate in corsa; le mascherine vendute sulla fiducia al governo italiano erano regolament­ari con le leggi di inizio marzo ma non dopo l’approvazio­ne del decreto Cura Italia. Poi, qualche giorno dopo, Pivetti ha spiegato che, se mai ci fosse reato, lei sarebbe parte lesa. E comunque, parole affidate alla trasmissio­ne di Barbara d’Urso, «ho voluto dare una mano e non fare business». In ogni caso, ma questo l’aveva già detto a caldo, «sono stata colpita per il mio cognome, mi fossi chiamata “Rossi” non sarebbe successo nulla».

Le giacche di Speroni

A tutti coloro che credessero alla tesi del «sono stata colpita per il mio nome» andrebbe spiegato com’è stato possibile che una quasi trentenne deputata della Lega sconosciut­a ai più, nel 1994, si sia trasformat­a in «un nome». Colpa delle coloratiss­ime giacche indossate dall’allora colonnello leghista Francesco Speroni, che Umberto Bossi aveva individuat­o come unico candidato alla presidenza della Camera dopo la vittoria del centrodest­ra alle elezioni del 1994. «È la terza carica dello Stato, Umberto. Non possiamo nominare uno che indossa quelle giacche», è l’altolà che Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio in pectore, impone all’alleato. La Lega ripiega sulla seconda scelta, Roberto Maroni, che però preferisce il ministero dell’Interno. Il jolly nascosto nel taschino del Senatur, e tirato fuori a sorpresa, è proprio quella giovane ragazza che aveva conosciuto anni prima, quand’era fresca di laurea col massimo dei voti alla Cattolica di Milano e frequentav­a, senza troppo trasporto, gli ultimi comizi del Partito comunista italiano prima dello scioglimen­to. «Morta in Vaticano»

Gli insegnamen­ti dell’austera suor Gertrude conosciuta anni prima sui banchi del liceo delle suore benedettin­e erano stati, per Irene Pivetti, il primo gradino del cursus honorum che l’avrebbe portata, benedetta da Bossi, a tenere i rapporti tra la Lega e il Vaticano. Prima che le giacche colorate di Speroni facessero il miracolo di trasformar­la nella più giovane presidente della Camera di sempre, ovviamente. Finì male, tutto male. Dopo le sue prese di posizione contro la scelta di cavalcare il miraggio della secessione dal Sud Italia, nell’estate del 1996, il gotha del Carroccio le indicò la porta. Bossi, a corto di eufemismi, le inviò una minaccia a mezzo stampa, figlia del gergo leghista dei tempi. «Io la Pivetti la rimando indietro in Vaticano, morta».

Gli indiani di Berceto

Prima che l’import-export con la Cina la inguaiasse, Pivetti ha tentato più volte di acquistare il biglietto di ritorno verso quella politica che l’aveva messa ai margini. La carriera televisiva, corredata da un onestissim­o quinto posto all’edizione 2007 di Ballando con le stelle, evidenteme­nte le sta stretta. Altrimenti, forse, non avrebbe accettato l’assessorat­o con delega alla formazione profession­ale che le viene offerto,

Presidente della Camera a 31 anni, scelta da Bossi e poi cacciata. La seconda vita con l’agente Lele Mora, i programmi tv, un travestime­nto da super eroina e un assessorat­o a Berceto. Fino ai reati che le vengono contestati oggi: «Tutta colpa del mio nome»

nel 2009, dal neo sindaco di Berceto, duemila anime in provincia di Parma. Il primo cittadino Luigi Lucchi, per allontanar­e il sospetto che la scelta fosse dettata dal nome altisonant­e di un ex terza carica dello Stato, giurò sul suo onore: «Pivetti conosce bene la realtà del nostro paese perché segue da tempo la nostra storia, soprattutt­o il gemellaggi­o tra Berceto e la comunità indiana Sioux Lakota». Per capirci, trattasi di nativi americani avezzi all’uso di piume, archi e frecce. Rigorosame­nte non contraffat­ti.

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